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Africa: la primavera araba si è fermata al Sahara


Ex Africa semper aliquid novi. La frase di Plinio il Vecchio non è mai stata tanto adatta che per descrivere quanto è successo nel 2011 nel continente africano. Dall’Africa infatti sono arrivati segnali inaspettati e nuovi per la politica internazionale.

Le contestazioni ai regimi in Nord Africa, seguite dalla caduta di Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto e infine di Mu’ammar Gheddafi in Libia, seguiti da percorsi non ancora conclusi di affermazione di sovranità elettorali, non sono stati una Primavera solo per il mondo arabo. La novità rappresentata da queste contestazioni, diffusesi e proseguite anche in Medio Oriente e in altri paesi del Maghreb, ha infatti una portata mondiale, di cui ancora non si conosce appieno l’impatto, ma che fa pensare a un riassetto degli equilibri di potenza nella regione (dall’Egitto alla Turchia, con buona pace dell’egemonia iraniana e in parte saudita) e all’emergere in un nuovo attore politico globale, ovvero i movimenti politici islamici, che si stanno affermando come alternativa di governo nei paesi che hanno sperimentato la rivolta araba.

Non sono però le rivolte arabe i soli elementi di novità dall’Africa dell’anno che va a concludersi. La Primavera araba non ha passato il Sahara, come per alcuni mesi si è temuto. Le manifestazioni tenutesi nelle capitali in Uganda, Angola, Senegal, Swaziland non hanno portato a sconvolgimenti dell’ordine costituito in questi paesi. Solo in Senegal, il cammino per la rielezione di Abdoulaye Wade nel 2012 si è fatto più complesso. Le ripercussioni della Primavera araba sono state più complesse, e vanno a colpire soprattutto i paesi della fascia saheliana, ovvero una zona di fragile equilibrio, tra uomini e deserto, tra arabi e africani, tra musulmani e cristiani: le mancate rimesse provenienti dai paesi a Nord, la chiusura delle vie di emigrazione verso l’Europa, l’instabilità ai confini hanno acutizzato i problemi di povertà endemica dei paesi afro-saheliani, così come le tensioni tra minoranze arabofone e governo centrale in paesi come Mali, Mauritania, Niger, Chad.

L’oscurarsi, auspicabilmente temporaneo, della stella egiziana ha indebolito anche l’egemonia regionale di quei paesi africani, ma appartenenti alla sfera culturale araba, come il Sudan, che hanno perso una sponda araba a cui fare riferimento nei momenti di contrasto con i vicini africani. Anche l’Unione africana rischia di rinchiudersi in una prospettiva più sub-sahariana, e quindi di venire meno alla sua vocazione panafricana: con la riduzione dei contributi dei paesi nordafricani, Libia in testa, che finanziavano circa il 75% del budget proveniente dai paesi membri, è molto probabile che i paesi dell’Africa nera vi si sostituiscano, modificando gli equilibri dell’organizzazione.

Se l’elemento arabo rischia di sparire dall’Africa, almeno nel breve periodo, l’Africa è però stata protagonista di tre messaggi di speranza globali. In primo luogo, il processo di indipendenza del Sud Sudan, iniziato con il referendum del 9 gennaio, e proseguito con la dichiarazione di indipendenza del 9 luglio, si è svolto molto meglio di come molti osservatori fossero disposti a scommettere. Raramente un processo di indipendenza, ancora di più se preceduto da 60 anni di guerra civile, ha avuto un epilogo tanto condiviso, quanto la presenza di Omar al-Bashir, presidente sudanese, alle celebrazioni dell’indipendenza a Juba del 9 luglio. La continuazione della convivenza tra i due Sudan non sarà facile, ed è certamente carica di sfide, ma le immagini dell’indipendenza del Sud Sudan sono state una rivincita dell’Africa, stereotipicamente dipinta come continente della frazionalizzazione etnica ma in realtà capace di comporre conflitti e contraddizioni insanabili altrove.

Il 7 ottobre 2011, l’assegnazione del Premio Nobel per la pace a due donne liberiane, l’attivista Leymah Gbowee e la presidente Ellen Johnson Sirleaf, insieme all’esponente politico yemenita Tawakkul Karman, è un altro segnale di come l’Africa nera possa essere d’esempio anche alla rivolta araba, per fare sì che alle donne venga riconosciuto non solo il diritto alla partecipazione politica, ma soprattutto il ruolo che esse possono svolgere nella costruzione di un destino pacifico della propria comunità.

La soluzione dell’impasse in Costa d’Avorio, sulla scorta dell’interventismo internazionale al traino della Francia in Libia, ha riscattato le decine di crisi dimenticate nel continente. Anche la ricostruzione della Costa d’Avorio pone questioni complesse per il suo presidente-economista, Alassane Ouattara, ma il 2011 ci restituisce un’immagine delle Nazioni Unite e delle potenze internazionali attente e partecipi di una crisi d’Africa.

Cosa che invece, purtroppo, non è successa per la carestia nel Corno d’Africa. Ai segnali di riconoscimento dell’Africa come attore globale avutisi nel 2011, non è corrisposto un eguale impegno dei donatori occidentali a sostegno del milione di persone che in Corno d’Africa, e in particolare in Somalia, sono state colpite dalla peggiore carestia del dopoguerra. Solo poco più del 60% dell’appello delle Nazioni Unite a sostegno della carestia (del valore di 2,5 miliardi di dollari) è stato finanziato. I donatori non tradizionali (America Latina, Paesi arabi, Cina) si sono mostrati molto più generosi che in passato, e molto più generosi della nazioni sviluppate, dimostrando nei fatti quanto è poi stato sancito nel Quarto forum per l’efficacia degli aiuti di Busan: essere donatore internazionale non è più solo appannaggio dei paesi occidentali, ma anche i paesi emergenti usano questo strumento come parte della loro politica di influenza, sancendo anche così un riassetto globale del potere internazionale che passa anche attraverso l’Africa.

I due giganti continentali hanno nel 2011 lanciato segnali contrastanti. In Sudafrica, la contrapposizione tra l’ala radicale del’Anc, impersonata dal leader della Lega giovanile Julius Malema, e l’ala centrista-realista di Jacob Zuma, è giunta a uno scontro per il momento risolutivo: Malema è stato sospeso dal partito per i prossimi 5 anni, facendo tirare un sospiro di sollievo a quanti, a partire dalla Borsa di Johannesburg, temevano una radicalizzazione populista della linea politica del governo. La Nigeria, dopo le elezioni presidenziali dell’aprile 2011, è stata sconquassata più volte da attacchi terroristici del movimento fondamentalista islamico Boko Haram, ritenuto da fonti internazionali la più credibile minaccia di Al Qaida in Africa.

L’ultima notizia del 2011 che arriva dall’Africa è una buona notizia per l’Italia: il 20 ottobre l’Eni ha dichiarato di aver trovato il più grande giacimento di gas che abbia mai scoperto, al largo delle isole Quirimbas. Un’occasione davvero unica per il nostro paese, per rilanciare i rapporti con il Mozambico, che nel 1992 ha firmato la “pace di Roma”. Un accordo che ha posto fine a 17 anni di guerra civile, grazie anche alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio e del suo fondatore Andrea Riccardi, ora ministro per la Cooperazione internazionale. Una scoperta, quella dell’Eni, che non poteva essere fatta sotto una stella migliore. Che persino il recupero di immagine internazionale dell’Italia passi dall’Africa?

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