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Eritrea, la diaspora e il regime che nega la realtà


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C’è una ragione se la maggior parte delle vittime del naufragio di Lampedusa sono eritree di origine. E c’è una ragione se circa un quarto della popolazione eritrea non vive più nel proprio paese (una proporzione assolutamente abnorme se si pensa che la diaspora somala, una tra le più ramificate e stratificate da un punto di vista storico tra le diaspore africane, è solo un sesto della popolazione della Somalia).

L’Eritrea è uno dei regimi più brutali e repressivi al mondo. A vent’anni dalla sospirata indipendenza, celebrata il 24 maggio 2013, l’Eritrea ha dimostrato di essere il più lontano immaginabile dalle aspettative che portarono migliaia di guerriglieri in sandali a prove di resistenza e coraggio senza eguali, persino tra le prove offerte in varie parti del mondo durante le lotte di indipendenza.

Amnesty International stima che siano almeno 10mila i prigionieri politici nelle carceri di Asmara, alcuni imprigionati da vent’anni. Sono innumerevoli i rapporti sulla violazione dei diritti umani, le persecuzioni, le torture, la repressione non solo per ragioni di ordine politico ma persino religioso. In Eritrea vige un regime di coscrizione forzata che riguarda tutti i cittadini, uomini e donne, fino al 50esimo anno di età per gli uomini e al 40esimo per le donne.

Un modo per motivare uno stato di mobilitazione permanente e per mascherare il controllo ferreo a cui il regime sottopone la popolazione.

Il regime è uno da cui, appunto, si scappa. Ma dal quale costa caro persino emigrare: i cittadini in età di leva non hanno diritto di espatriare e molti, quindi, fuggono illegalmente, diventando facili prede di trafficanti di esseri umani che, come testimoniato anche da vari rapporti delle Nazioni Unite (il più recente del luglio 2012), sono coperti se non addirittura in connivenza con personalità dell’establishment militare.

Le famiglie di chi emigra sono oggetto di ritorsione da parte delle autorità eritree: i genitori o i parenti di primo grado possono essere arrestati e devono in ogni caso pagare una multa, calcolata in base al reddito dei genitori e in ogni caso salatissima. Sempre più isolato anche economicamente da sanzioni internazionali, il regime eritreo utilizza l’emigrazione per raccogliere risorse per la propria sopravvivenza: da qui la sostituzione dell’incarcerazione dei parenti stretti con le multe, la cosiddetta diaspora taxation – ogni cittadino eritreo all’estero deve versare il 2% del proprio reddito – e persino l’incoraggiamento attraverso canali illegali dell’immigrazione.

E allora, oltre a discutere delle norme sull’immigrazione, sarebbe opportuno che dall’Italia, seguendo quanto già fatto da altri paesi europei, partissero segnali chiari verso l’Eritrea. In primo luogo, con un impegno per la restituzione delle salme delle vittime alle famiglie in Eritrea, affrontandone gli ostacoli burocratici ma soprattutto diplomatici. Non sarà facile infatti favorire il rimpatrio di salme di cittadini scappati da un paese che, dichiarando di avere un tasso di emigrazione pari allo 0 per mille, nega l’esistenza di una popolazione di emigrati.

La tv di stato eritrea non ha dato notizia della presenza di cittadini eritrei nel naufragio, riportando solo la morte di “cittadini africani”. Si tratterebbe di un primo gesto, segno di pietas, e al tempo stesso di un gesto che darebbe davvero un peso di solidarietà e dignità concrete alle tante parole spese dalla politica in questi giorni di lutto e sgomento.

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