Informativa urgente del Governo sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente
Intervento del Ministro degli Affari Esteri Federica Mogherini
Camera dei Deputati, martedì 29 luglio 2014
Signor Presidente, Colleghe e Colleghi,
consentitemi, questa mattina, di partire dal dolore e dal cordoglio che credo, a nome non solo del Governo e di questo Parlamento, ma di tutto il popolo italiano, oggi esprimiamo a tutti coloro che, in queste ore, in questi giorni, hanno perso un figlio, un fratello, una madre, una persona cara. Lo zio di Naftali Fraenkel, uno dei tre ragazzi israeliani rapiti e assassinati, ha detto nei giorni dell’uccisione del giovane arabo bruciato vivo che non c’è differenza tra sangue ebreo e sangue arabo. Il dolore, anche quello più profondo, può alimentare spirali interminabili di violenza, ma può anche unire.
Vorrei fare due premesse ed un invito. Il dramma della crisi su cui oggi riferisco in quest’Aula rappresenta, purtroppo, solo l’ultimo, insostenibile capitolo di una storia di conflitto lunga decenni, nata prima che io e molti di voi in quest’Aula nascessimo. Ho detto «conflitto», ma sarebbe più corretto usare il plurale. Si intrecciano, infatti, oggi, come nei decenni passati, diversi livelli di conflittualità: quella regionale arabo-israeliana, quella israelo-palestinese e, molto spesso, anche un grado non trascurabile di competizione, contrasto interno ai rispettivi campi – quello israeliano, quello palestinese e quello arabo – per la leadership nella gestione delle crisi, a tratti molto acute, che si susseguono cronicamente, ciclicamente, nei decenni. Siamo, quindi, di fronte ad una complessità che non consente schematismi, semplificazioni, ma che, invece, ci richiama alla serietà di un’analisi più profonda, più d’insieme.
La seconda premessa riguarda il contesto regionale, mai così drammatico: un contesto in cui crisi molto diverse tra loro, con genesi e dinamiche differenti, rischiano di saldarsi e di alimentare un unico fronte di radicalizzazione che può letteralmente fare esplodere la regione, la nostra regione. Dalla Siria, all’Iraq, alla Libia, in questi giorni in fiamme e per la quale stiamo adoperando ogni strumento politico e diplomatico per fare in modo che il confronto si sposti dal piano dello scontro armato a quello del confronto politico, con un cessate il fuoco che consenta la convocazione del Parlamento eletto a fine giugno, dicevo, dalla Siria all’Iraq, alla Libia, passando dalla fragilità dell’equilibrio libanese, fino all’esposizione della Giordania a più fronti aperti, tutti ugualmente drammatici, è evidente che ci troviamo a dover rispondere oggi ad un contesto inedito, ancora più ampio, più complesso, più drammatico di quanto il già devastante scenario della ciclicità delle crisi mediorientali non abbia rappresentato nei decenni passati.
C’è chi parla in questi giorni della fine dell’ordine di Sykes-Picot in Medio Oriente, un ordine disegnato a tavolino dalle potenze occidentali nel 1916 che, seppur artificiale, aveva garantito agli occhi di molti una parvenza di stabilità. Quello che, ormai, è evidente a tutti è che assistiamo oggi alla più profonda trasformazione della regione dall’era della decolonizzazione e a questa rapida, drammatica evoluzione del quadro regionale si può rispondere davvero in profondità solo con una nuova politica, un nuovo equilibrio regionale, che coinvolga direttamente tutti gli attori mediorientali in un’assunzione di responsabilità condivisa e nuova.
Questo cammino di cui si iniziano a percorrere i primi passi prenderà tempo e credo potrà essere il terreno di prova di un rinnovato impegno italiano ed europeo; ma prenderà tempo. Ora, oggi, dobbiamo fare fronte alla devastante drammaticità di un conflitto che rischia di vederci impotenti spettatori. Uno degli interlocutori palestinesi con cui ho avuto modo di parlare a Ramallah, qualche giorno fa, mi diceva con un sorriso amaro che il loro timore, oggi, è che davanti ai nuovi ed inquietanti conflitti della regione, la comunità internazionale possa pensare che, in fondo, quello israelo-palestinese sia il più trascurabile, perché già noto, in qualche modo rassicurante, «sicuro», questa è la parola che ha usato. Ci uccidiamo da decenni – mi ha detto – potreste anche pensare che, in fondo, qualche decennio in più non farà la differenza. Specularmente, in quegli stessi giorni, a pochi chilometri di distanza, a Gerusalemme, David Grossman mi diceva parole molto simili a quelle che un quotidiano italiano riportava ieri: com’è possibile che da oltre cent’anni noi e i palestinesi soffochiamo insieme dentro questa bolla ermetica, crudele e disperata; come mai per decenni non siamo stati in grado di pensare al di fuori di questa bolla in cui siamo intrappolati, di bucarla ?
Ecco, l’invito che vorrei fare a tutti noi, in quest’Aula, e all’opinione pubblica italiana è di non farci intrappolate anche noi in quella bolla di odio, di non cedere alla logica della partigianeria, all’idea che ci si debba dividere tra amici di Israele e amici della Palestina, che si debba scegliere da che parte stare nel conflitto tra due disperazioni e tra due esasperazioni. Perché il nostro ruolo, quello più utile, forse l’unico utile, quello mai davvero esercitato fino in fondo, non è quello di entrare in questo conflitto, ma di fermarlo, di prendere uno spillo e bucare quella bolla, di aiutare chi è intrappolato lì dentro ad uscirne. È questo quello che ci chiedono.
Uno dei tanti limiti della reazione che la comunità internazionale sta mostrando di fronte a questo dramma sta nell’aver smarrito la consapevolezza che esistono due disperazioni, due esasperazioni, due paure, forse, ormai, anche due rassegnazioni, diverse per drammaticità, non comparabili in nessun modo, ma entrambe reali; insieme esistono, esisterebbero due diritti, due sogni, quello di Israele ad esistere in sicurezza e quello dei palestinesi a vivere vite normali, in pace, non più sotto occupazione, in uno Stato sovrano.
Il nostro dovere, il dovere della comunità internazionale e, soprattutto, dell’Europa per la sua responsabilità storica e perché condivide con Gaza e Israele lo stesso mare è lavorare non per affermare un diritto contro l’altro, ma per realizzare entrambi. Per farlo dobbiamo essere, innanzitutto, consapevoli che le linee di confine, oggi, non sono tra arabi e ebrei, ma tra chi aspira a vivere in pace nel rispetto dei diritti altrui e chi, invece, si nutre emotivamente e ideologicamente di violenza e ne vuole il proseguimento. È un principio con cui so che molti di noi in quest’Aula sono cresciuti, di certo la mia generazione, che aveva sperato di poter vedere una stagione di riconoscimento reciproco e di rispetto reciproco, di pace.
Oggi siamo lontanissimi da quelle speranze; dall’avvio dei combattimenti a Gaza, l’8 luglio, secondo le stime aggiornate a ieri sera, le vittime palestinesi sono 1.034, di cui 832 civili, 221 bambini e i feriti 6.233. Le vittime israeliane sono, a questa mattina, 56, di cui tre civili, e i bilanci in queste ore sono ancora più drammatici, crescono. Sono tra chi pensa che ogni singola vita umana sia inestimabile e la morte di ogni singola persona inaccettabile, ma è l’enormità di questi numeri a rendere ancora di più inaccettabile umanamente e politicamente il conflitto in corso.
Di fronte a questo dramma lo sforzo dell’Italia, insieme al resto della comunità internazionale, è prioritariamente volto al raggiungimento e al mantenimento di una tregua umanitaria, almeno per recuperare i corpi, assistere i feriti, proteggere i civili. Sapete bene, per averlo letto, qual è stata negli ultimi giorni l’altalena di accordi, violazioni e smentite che si sono ripetute da entrambe le parti. Giocano in questa dinamica, senza dubbio, anche i diversi livelli di conflittualità a cui facevo riferimento in premessa, a partire dalle competizioni e dai contrasti interni ai diversi campi. Le ore di festa per la fine del Ramadan, iniziate ieri, sembravano poter essere l’occasione per innescare una fase di calma e avrebbero dovuto e potuto esserlo. Invece, dopo poche ore sono riprese le ostilità con morti e feriti sia nel sud di Israele che a Gaza.
Potrei, dovrei, e infatti lo faccio, riportare qui l’elenco dettagliato delle iniziative diplomatiche e politiche che si sono succedute in queste settimane, del modo in cui il Governo italiano ha sostenuto, accompagnato e, in alcuni casi, avviato tentativi di dialogo, fin dai giorni immediatamente precedenti alla decisione del Governo israeliano di iniziare un’operazione di terra nella striscia di Gaza in risposta al lancio di razzi sul territorio israeliano. Come sapete, ero in visita in Medio Oriente, in quei giorni, per incontri che in stretto raccordo con i partner europei e internazionali, a partire da Stati Uniti, Lega araba e altri Paesi della regione, abbiamo dedicato alla ricerca di una via di uscita non militare dalla crisi che già era del tutto evidente.
L’abbiamo fatto a Ramallah, con il Presidente palestinese Abbas, a Gerusalemme, con il Primo Ministro israeliano Netanyahu, ad Amman, a Il Cairo, con il Presidente al-Sisi, ed ancora, in questi ultimi giorni, con l’incontro di sabato a Parigi insieme a Kerry e ai nostri colleghi di Francia, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar, con un collegamento diretto e costante con l’Egitto e con l’Autorità palestinese, con un colloquio telefonico con il Ministro degli esteri iraniano Zarif, con il lavoro dell’ultimo Consiglio affari esteri dell’Unione europea, una settimana fa, con il sostegno agli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e la dichiarazione adottata ieri all’unanimità in Consiglio di sicurezza, che fa riferimento al rispetto del diritto internazionale umanitario e alla protezione dei civili ed esprime sostegno ad un cessate il fuoco «immediato ed incondizionato» sulla base della proposta egiziana, proposta che l’Italia ha sostenuto fin dal suo delinearsi e che è stata frutto di un diretto impegno dell’Autorità palestinese e della Lega araba.
Resta, però, non lo nascondo, di fronte a questa instancabile e congiunta attività politica e diplomatica il senso non solo di profondo dolore, ma di profonda frustrazione davanti ad un conflitto che non si ferma. A nulla sono valsi anche gli appelli di un Papa che poco più di un mese fa aveva regalato a tutti noi, e a quelle terre, la speranza di una comune preghiera di pace ospitando in Vaticano il Presidente Abbas e il Presidente Peres.
Il numero di vittime sale. Sale il numero di bambini, ragazze e ragazzi che cresceranno con la guerra negli occhi, con la paura e la rabbia nel cuore, a Gaza, in Cisgiordania, in Israele, in tutto il mondo arabo, con un rischio di radicalizzazione pericolosissimo per la stabilità di fragili transizioni democratiche. E cresce in Europa, insieme al rischio di derive antisemite su cui dobbiamo vigilare con la massima attenzione, come ci ricorda l’episodio di Roma di questa notte. Sono semi di odio con cui dovremo fare a lungo i conti, nei decenni che verranno. Per questo l’imperativo di queste ore è fermare il conflitto. Fermare l’operazione militare di Israele. Fermare il lancio di razzi da parte di Hamas e jihad islamica.
Sappiamo bene che una tregua non è e non sarà risolutiva, ma è il primo, indispensabile passo per fermare le armi e avviare un percorso negoziale. Per questo stiamo tutti lavorando affinché le parti accettino una prima tregua umanitaria, immediata e incondizionata. A questo dovranno legarsi altri passi per un cessate il fuoco duraturo, indispensabile perché la situazione non torni, nel breve e medio periodo, a esplodere nuovamente. L’unica cosa completamente chiara a tutti,a tutti, è che non si può rischiare che tra dodici, diciotto o ventiquattro mesi si ricominci da capo. Per evitarlo, tutti sappiamo bene quali sono le cose da fare e su cui impegnare l’intera comunità internazionale.
Primo: migliorare nettamente le condizioni di vita dei palestinesi, sia nella Striscia di Gaza sia in Cisgiordania. Nell’immediato questo significa consentire l’accesso umanitario e mobilitare un sistema di assistenza per l’emergenza e di sostegno alla ricostruzione e allo sviluppo socio-economico. La Norvegia, in quanto Presidente del Ad Hoc Liaison Committee ha proposto all’Italia, Presidente di turno dell’Unione europea, di lavorare insieme all’ipotesi di una Conferenza dei donatori da tenersi a Oslo nelle settimane immediatamente successive al cessate il fuoco. Intanto l’Italia ha già disposto un contributo di emergenza della cooperazione di 1.650.000 euro per rispondere agli appelli delle agenzie internazionali, per l’acquisto di medicinali e generi di prima necessità e per programmi delle nostre ONG, che ho avuto modo di incontrare a Gerusalemme nei giorni scorsi.
In più, l’Italia contribuisce, con 4 milioni di euro, al bilancio di UNRWA e con 2 milioni a sostegno dei profughi palestinesi in Siria e in Libano. Saremo veramente pronti a condividere con questo Parlamento una valutazione seria, approfondita e credo anche urgente sulla necessità di aumentare questi contributi, con un focus particolare all’attività della Striscia di Gaza. Nel breve e medio periodo, però, sarà necessario sciogliere i veri nodi della situazione a Gaza, a partire dall’apertura dei valichi, del rispetto dei diritti dei palestinesi di coltivare la propria terra e pescare nel proprio mare, e dalla soluzione del problema del mancato pagamento degli stipendi del personale pubblico a Gaza.
Il secondo punto, necessario, è rafforzare la capacità e gli strumenti di Governo dell’Autorità palestinese, non solo in West Bank, attraversata da tensioni tanto comprensibili quanto preoccupanti, ma anche a Gaza. L’Italia ha valutato fin dall’inizio con favore la costituzione di un Governo di unità, o rionciliazione nazionale. È ora di riconoscerlo come interlocutore utile anche da parte israeliana, per rafforzare il ruolo del Presidente Abbas e per garantire a tutti i palestinesi un canale di rappresentanza istituzionale ed internazionale. Credo sia stato, in questi giorni, molto importante l’impegno del Presidente Abbas, nel lavoro per un cessate il fuoco in stretto collegamento con Egitto, Turchia, Qatar e Lega araba oltre che con le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e i partner europei.
Il terzo punto, necessario, è relativo al bisogno di offrire a Israele garanzie di sicurezza, nell’immediato, sulla distruzione di razzi e di tunnel, nel breve periodo sulle misure di demilitarizzazione di Gaza ed ovviamente sul controllo delle frontiere.
Da questo punto di vista, abbiamo discusso in questi giorni con gli altri Paesi europei, ma anche con le autorità israeliane, palestinesi ed egiziane la riattivazione della missione dell’Unione europea di monitoraggio EUBAM Rafah, sul cui dispiegamento l’Italia è pronta ad assumere un’iniziativa. È evidente a tutti noi, però, che una missione di questo tipo che sia EUBAM Rafah o un’altra, con diverso mandato e diverse formule anche ispirate all’esperienza positiva di UNIFIL non potrebbe prescindere dal consenso delle parti e da una contestuale assunzione di responsabilità amministrativa a Gaza, da parte dell’autorità palestinese.
Il quarto punto è garantire una cornice regionale ed internazionale a garanzia e a sostegno di questo percorso: credo che un ottimo punto di partenza possa essere, oggi, la proposta del piano di pace della Lega Araba del 2002, il cui valore in questi giorni in una regione devastata da violenza e instabilità è ancora più prezioso di quanto non lo fosse negli anni più bui della seconda intifada, un modo di trasformare forse le sfide comuni e condivise alla sicurezza dei diversi attori della regione, tra loro molto diversi, in opportunità di cooperazione, a partire da un quadro che garantisca il riconoscimento da parte di tutti dello Stato di Israele e la creazione finalmente di uno Stato palestinese. È forse proprio su questo piano che l’Europa può dare il suo contributo maggiore, proponendo una visione di pace e di reciproco rispetto dei diritti, una visione che consenta a tutti di uscire dal conflitto vincendolo.
È questo credo l’ultimo, ma il più rilevante dei tasselli del quadro che abbiamo il dovere di costruire, il quinto punto, che citerò, il raggiungimento di una soluzione reale, vera e duratura della questione palestinese: non parlo di «rilancio del processo di pace»: sono anni, sono decenni che le diplomazie mondiali e regionali si esercitano in colloqui di pace che sembrano a volte avere il principale obiettivo di tenere impegnate le parti e prevenire le tentazioni militari, secondo il noto principio per il quale se si è impegnati in negoziati non si combatte. Ma qui la storia è diversa: decenni di esercizi diplomatici frustrati hanno reso sempre più chiusa quella bolla di esasperazione e disperazione di cui parla in Grossman, allontanando, giorno dopo giorno, e la volontà politica e la forza delle rispettive leadership, quando tentano la strada della pace.
La possibile soluzione negoziale, con la creazione di due Stati ed il contestuale riconoscimento arabo di Israele è nei fatti definita: non c’è negoziatore sui due lati, o mediatore che non lo riconosca. Serve uno scatto di volontà. Interna, nel campo israeliano e palestinese, se le macerie di questo conflitto aiuteranno finalmente ad uscire dall’incubo dell’accettare lo status quo. Esterna, della comunità internazionale, se servirà qualcuno che, davanti a tanto dolore impotente, imponga alle tante parti di mettere fine al loro infinito conflitto e cominciare a vivere.
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