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Le tessere non sono figurine Panini

di Lia Quartapelle

Quello che è stucchevole del dibattito sui numeri del tesseramento, al di là delle macroscopiche inesattezze numeriche (da comunicazione del responsabile nazionale organizzazione Lorenzo Guerini gli iscritti al 10 ottobre risultano 239mila e non 100mila), è la mancanza di senso. Nessuno di coloro che si sono dimostrati preoccupati dal calo dei tesserati da quando il Pd è diventato il partito di Renzi ha spiegato a cosa servono effettivamente tanti tesserati. Le tessere non sono le figurine di un album Panini, un feticcio da conservare, ma una straordinaria risorsa da impiegare per obiettivi politici di cambiamento e una visione di Italia.

Sono due le modifiche strutturali con cui deve confrontarsi oggi una qualsiasi idea di organizzazione del Partito democratico. Da un lato, il Pd è finalmente un partito di governo. Con la coincidenza tra premiership e leadership, l’organizzazione di partito non serve più a condizionare in un gioco di forza chi è al governo. Infatti, al governo c’è una espressione diretta del Pd: sono finiti i tempi in cui si fa pesare il sostegno del partito a un candidato non partitico.

Il Pd oggi deve servire a sostenere, diffondere, far vivere tra i cittadini le proposte di cambiamento che si fanno governo, e sfruttare la posizione di governo per modificare la realtà. Questo significa due cose: da un lato, rinsaldare il legame tra le proposte di riforma e chi deve sostenerle, attraverso una reale formazione di quadri dirigenti e la creazione di sistemi di mobilitazione e informazione efficaci in una società che è molto mutata. Concretamente: la mitologia della base ci ha abituato a circoli che dibattono i grandi temi di politica nazionale, con l’idea che così si possa migliorare il merito delle politiche.

Come se, in un’epoca di policies che richiedono sempre più strumenti tecnici per essere immaginate o di scelte dirimenti che necessitano di una leadership che si assume le responsabilità di decidere, il dibattito diffuso possa portare valore aggiunto nel merito. Gli organismi dirigenti politici devono discutere, e decidere. I circoli, gli iscritti, i simpatizzanti, devono poter esprimere orientamenti sulle linee di tendenza dei provvedimenti di governo.

Ma l’organizzazione di base deve dare un contributo diverso. Non dobbiamo più essere un partito pieno di esperti di quello che non va. Dobbiamo diventare un’organizzazione in grado di coinvolgere la società su quanto di buono si sta facendo, utilizzando strumenti che permettano al Pd, alla sua struttura, di gestire consultazioni dei cittadini sulle grandi linee di riforma (come sta avvenendo per la campagna “La buona scuola”), e strumenti che permettano una reale, informata, convinta presenza di quadri politici nel dibattito quotidiano (al bar, con i colleghi, con le mamme all’uscita di scuola), a sostegno del percorso di riforme. Che permettano cioè al Pd di essere l’anello tra il cambiamento che si vuole portare, e i cittadini, che devono essere soggetti del cambiamento, e non oggetti. Un percorso simile a quello sperimentato dal Partito democratico Usa dopo l’elezione di Obama.

Dall’altro lato, essere al governo permette di avere in mano leve di cambiamento. Per questo, ripensare alla forma organizzativa del partito sarebbe utile: non più iscritti che sono spettatori di un dibattito che nei fatti avviene lontano da loro, ma iscritti che diventano in grado di mobilitare la comunità in cui vivono, ne interpretano le istanze, le organizzano, collegandole a chi ha il potere di cambiare la realtà dei fatti. L’esperienza del community organizing del Labour – che non è una forma di creazione di comunità virtuali – è di ispirazione: lì si è creata una organizzazione che lavora a fianco del partito, che ha l’obiettivo di interagire con le comunità territoriali, individuarne i bisogni, aiutarle a organizzarsi politicamente per essere attori di cambiamento.

Con la nostra presenza capillare e l’interazione con le amministrazioni locali, molto più diffusa che in Gran Bretagna, il modello del community organizing può diventare una chiave di volta di un partito nuovo. Che si contrappone in modo davvero partecipativo e trasformativo al meccanismo sterile della viralità solo telematica a cinque stelle.

In secondo luogo, pensare ai numeri del tesseramento senza tenere conto che noi siamo un partito di iscritti ed elettori è davvero un’occasione sprecata. Gli elettori delle primarie sono altrettanto un patrimonio dei nostri tesserati. Da questo punto di vista, l’organizzazione del partito va pensata su due livelli: proposte, comunicazione, mobilitazione devono essere tarate per il cerchio più interno e fidelizzato, quello degli iscritti, e in forma più leggera, ma ugualmente coinvolgente, per gli elettori delle primarie. Questo significa, in primo luogo, uno straordinario lavoro ancora tutto da fare per rendere utilizzabili gli elenchi degli elettori delle primarie. E poi l’abituarsi a lavorare con persone non politicizzate, non sempre convinte a prescindere, ma più inserite nella società.

Se non li pensiamo come figurine Panini, gli iscritti possono essere tanti o pochi: dipende dalla visione per la quale li vogliamo coinvolgere. Dipende se abbiamo la forza per organizzarli, in modo che rispondano a una realtà politica in evoluzione. E se non ci dimentichiamo che non ci sono solo loro. Il partito non è un fine, è un mezzo per effettuare un cambiamento.

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