Dopo aver contribuito alla mozione per il cessate il fuoco umanitario a Gaza votata il 13 febbraio, dal 18 al 21 febbraio sono stata in una fact finding mission in Israele con una delegazione di parlamentari di vari paesi europei. Missioni di questo tipo aiutano a capire se, quando si saranno fermati i bombardamenti come abbiamo chiesto in Parlamento, ci sono condizioni in cui si può sviluppare una efficace azione di politica estera del nostro paese, mirata alla pace, alla stabilità, al rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani, nella convinzione che tra Israele e Palestina ci siano due ragioni che devono convivere, e non una ragione che si oppone a un torto. La prospettiva acquisita durante la missione e qui riportata è parziale e fotografa solo quello che sta accadendo in Israele. Tenere conto di questo punto di vista non significa ignorare o mancare di condannare le atrocità in corso a Gaza, né le violenze sistematiche a cui i coloni della destra nazionalista israeliana stanno sottoponendo da anni i palestinesi in Cisgiordania. Per avere un’idea completa di quel che si dovrà fare quando l’operazione di Israele contro Hamas si sarà fermata, sarà necessario visitare la Cisgiordania e accedere anche a Gaza.
La missione è stata anche l’occasione per sensibilizzare le autorità israeliane rispetto ad alcuni casi umanitari di gazawi che sto seguendo e che l’Italia è pronta ad accogliere e a far presente che ai cooperanti italiani che lavorano in Cisgiordania siano permesso di continuare a lavorare.
Durante la missione abbiamo incontrato 15 rappresentanti delle istituzioni locali e della società civile, una deputata, abbiamo colloquiato con le famiglie degli ostaggi e effettuato una visita al kibbutz di Be’eri duramente colpito il 7 ottobre.
Cosa ho visto
Una nazione molto traumatizzata. Non c’è persona incontrata, dalla nostra guida Arieh O’Sullivan (che di solito fa lo speaker alla radio nazionale) al mio amico Jonathan Cummings che è responsabile esteri del nostro partito fratello, il Labour, che non ci dica dove era quella mattina del 7 ottobre, e non ci racconti di un membro della propria famiglia sotto le armi oppure vittima dei terroristi di Hamas. Israele è un paese molto piccolo, 9 milioni di abitanti, 300mila persone sono mobilitate nell’esercito, le vittime assassinate sono state state più di 1200: ognuno ha qualcuno a cui vuole bene che è arruolato, che ha vissuto il terrore, che è rapito o è morto. Durante la prima visita, all’ospedale Barzilai, mi accorgo ben presto che non solo Ron Lobel, il medico con cui parliamo ha vissuto ore terribili (racconta di vivere in un moshav, un villaggio, al confine con Gaza, e che la sua casa è a 300 metri dalla recinzione di Gaza, e che ha passato 13 ore con la moglie e la figlia nel rifugio anti-missile tenendo a turno la maniglia della porta) ma chiunque incontriamo nei corridoi dell’ospedale ha conosciuto il terrore del 7 ottobre. In tanti raccontano del loro “miracolo”: cioè delle ragioni del caso per le quali sono ancora vivi. Anche la discussione con l’unica parlamentare che incontriamo è complicata: il trauma di vedere svanire la sicurezza dello Stato è così grande che anche a 5 mesi di distanza è molto faticoso ragionare con lei in modo schietto e franco sul dopo, sugli errori commessi, sul necessario processo politico da mettere in campo con i palestinesi.
Ho visto anche una nazione molto coesa. Nili, che ci porta in giro nel kibbutz di Be’eri dove vive dagli anni ’70, ci dice: “Io sono qui. Hanno ucciso mio marito quel mattino, ma non andrò via. Dovremo trovare un modo di convivere. Non c’è altro modo che convivere: noi vogliamo stare qui, loro vogliono stare qui. Non so se vedrò la convivenza prima di morire, ma va trovato un modo”. Ed è anche una nazione unita nella solidarietà: all’incontro con le famiglie degli ostaggi, ogni nucleo familiare degli ostaggi è circondato da parenti, amici, colleghi che hanno organizzato turni per stare loro vicini e per accompagnarli in occasione come questa. Nella piazza più grande di Tel Aviv c’è un grande fermento di volontari e di società civile, auto-organizzati, e spesso in contrapposizione a Netanyahu. Il nostro ambasciatore Sergio Barbanti ci spiega che questa reazione della società civile è una delle enormi correnti di energia che attraversano Israele.
Ci è stata raccontata anche della fine della collaborazione con Gaza. Il medico dell’ospedale di Ashkelon era il responsabile di più di 140 progetti di collaborazione medica con Gaza: tutti finiti. A Sderot, la città israeliana più vicina a Gaza, ci dicono: “Ci siamo fidati dei palestinesi. Abbiamo creduto che i progetti comuni, i permessi di lavoro, potessero essere un modo per permettere loro di capire che c’è un mutuo interesse a collaborare invece di farci la guerra. E invece hanno usato queste occasioni di incontro per spiarci. Queste non sono persone che vogliono vivere di fianco a noi”. All’incontro con le famiglie degli ostaggi, Alon Gat racconta che quando i terroristi di Hamas lo hanno prelevato insieme a sua figlia Geffen di tre anni e sua moglie Yarden, siano stati circondati da decine di gazawi che li guardavano senza tradire nessuna emozione. Queste impressioni dureranno a lungo, anche nei kibbutz come Be’eri, luoghi nei quali, come ci racconta Eyal: “Si fanno ancora cose che sembrano belle ma che non funzionano: si versano gli stipendi nella cassa comune, si mangia alla mensa comune, le case sono organizzate per gruppi di età così che i bambini possano crescere insieme”. Chiedo a Nili cosa votavano e cosa voteranno “Nessuno del kibbutz votavano Netanyahu e certamente non abbiamo cambiato idea”.
Cosa ho inteso
L’importanza della politica. Dalle famiglie degli ostaggi arriva una richiesta che pesa come un macigno: “Voi che avete potere, aiutateci, usate il vostro potere per fare pressione per la liberazione dei nostri cari”. Mentre siamo a Sderot, sul grande schermo della centrale operativa della città scorrono le immagini che le telecamera hanno ripreso il 7 ottobre, e di fianco appaiono quelle del ministro estremista Ben Gvir che vuole vietare l’accesso alla Spianata delle Moschee per il mese di Ramadan non solo ai cittadini palestinesi ma anche ai tutti i cittadini arabi-israeliani con meno di 70 anni. Una palese e intollerabile discriminazione che colpirebbe anche cittadini israeliani e un modo per infiammare ancora di più le tensioni. Servirebbe che tutti i partiti politici in Israele, non solo chi si è opposto a Netanyahu, trovassero parole e gesti per superare il trauma, non per aggiungere benzina sul fuoco. E invece, ci sono forze politiche al governo che forzano la mano, che spingono per approfondire le divisioni.
Cosa servirebbe per la pace? Chi ha partecipato negli ultimi vent’anni ai negoziati di pace ci spiega di aver imparato che quando si fa la pace, questa è duratura. Lo dimostrano gli accordi che sono stati stretti tra Egitto e Israele e tra Israele a la Giordania. Ma per fare la pace, servono leader storici, pronti a rischiare la propria vita. Come Anwar Sadat e Itzakh Rabin. Il 7 ottobre è stata una durissima, dolorosissima lezione. Ma con umiltà, aggiunge il nostro interlocutore, sono queste le lezioni che servono per cambiare completamente rotta.
Cosa farò
Da missioni di questo tipo, si torna con alcuni elementi fattuali e con molte domande: come cambierà l’idea di sicurezza in Israele? C’è una leadership politica in Israele capace di dire che sicurezza e convivenza sono oggi due facce della stessa medaglia, a differenza di quanto promesso da Netanyahu e dai suoi alleati di estrema destra? In Palestina, esiste qualcuno in grado di affermare pubblicamente con chiarezza che, nonostante tutto quello che non ha funzionato in questi anni e nonostante i morti e i crimini di guerra, l’unica strada per la Palestina libera è quella di due paesi che convivono, o prevarrà il messaggio estremista di Hamas per la quale non c’è libertà per i palestinesi finché esisterà lo Stato di Israele? Questi spunti andranno approfonditi nei prossimi mesi, nel dialogo con israeliani e palestinesi. Da quello che ho visto dal lato israeliano, trauma, coesione nazionale, rottura con i palestinesi: riaprire il dialogo non sarà facile. Dal lato di Gaza le distruzioni, la fame, i morti civili avranno eretto altri muri. E’ proprio in queste condizioni che il dialogo va reso più frequente, anche per far pressione nella speranza che maturino convincimenti e idee diverse.
Per me, la memoria dell’attacco terrorista di Hamas e il lavoro per la liberazione degli ostaggi dovrà continuare a convivere con la condanna delle ingiustizie subite dai palestinesi in Cisgiordania per mano dei coloni, e con la denuncia dei crimini in atto a Gaza. Il dialogo con israeliani e palestinesi dei prossimi mesi avrà questo come bussola.
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