Tra due giorni la discussione scatenata dall’articolo di Fanpage si sarà spenta e avremo perso un’altra occasione per affrontare concretamente la questione delle molestie sul luogo di lavoro, a partire dal Parlamento. Esuliamo dalla vicenda specifica, perché sarebbe come guardare il dito quando si indica la luna.
Quante donne in Italia non denunciano violenze o molestie subite da datori di lavoro o colleghi? Il silenzio che circonda le molestie è molto duro da scalfire, a maggior ragione quando c’è di mezzo il potere. Secondo un rapporto ISTAT del 2017, l’8,9% delle lavoratrici ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Solo due su dieci di loro si sono sentite a loro agio a parlarne sul luogo di lavoro. Meno di una su 100 lo ha denunciato alle forze dell’ordine.
Se è così in tutti i luoghi di lavoro, perché in Parlamento dovrebbe essere diverso? Eppure, il Parlamento dovrebbe essere il luogo non solo dove si fanno le leggi per prevenire e punire le molestie ma in cui si rispettano per prime quelle leggi.
Invece non è così. Il Parlamento italiano non ha codici di comportamento anti-discriminazione e contro le molestie, o spazi neutri per le denunce. Le procedure di assunzione dei collaboratori si risolvono nel rapporto diretto tra parlamentare e subordinato, senza un coinvolgimento dell’amministrazione parlamentare, accrescendo a dismisura il potere discrezionale del parlamentare nei confronti dei collaboratori e a maggior ragione delle collaboratrici.
Chiunque (responsabili di partito, vertici del Parlamento, forze di polizia) sia nella posizione di intervenire e di promuovere a partire dal Parlamento un ambiente di lavoro corretto e trasparente lo deve fare. Perché oggi non è così. La cultura dello stupro va contrastata a partire dalle istituzioni repubblicane.
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