«Ma cercate prima l’ingresso nel regno dei cieli e la giustizia divina; tutto il resto vi verrà in soprannumero». E’ in questo versetto del Vangelo secondo Matteo (6:33) che si riassume il dibattito di questi giorni sul tema della democrazia paritaria e della nuova legge elettorale, come autorevolmente rappresentato anche da un editoriale di Nadia Urbinati su Repubblica di domenica.
Avere un numero congruo di donne in parlamento, infatti, in tutti gli schieramenti politici, è un bene in sé perché questo implica che i bisogni e le aspettative delle donne siano tenuti più in considerazione nel processo legislativo. Ho firmato con tante altre colleghe di varie appartenenze politiche gli emendamenti per la democrazia paritaria, e sono convinta che l’esserci sia condizione necessaria ma non sufficiente. Già che ci siamo, per rafforzare la nostra giusta battaglia, è opportuno cogliere questa occasione in cui riflettiamo sulla rappresentanza per capire quali possano essere i prossimi passi della coalizione trasversale di donne che andiamo costituendo.
L’Italia ha oggi il parlamento con la più alta presenza femminile nella storia della Repubblica, nel sesto anno consecutivo della peggiore crisi economica dalla fondazione dello stato unitario. Una crisi economica che ha dispiegato i suoi effetti in modo diseguale tra donne e uomini, colpendo in modo più violento le prime: il taglio della spesa sociale ha aggravato il peso del lavoro di cura sulle donne; il divario retributivo è aumentato dal 4,8 per cento nel 2008 al 6,7 nel 2014; l’aumento del tasso di inattività femminile, già ben al di sopra della media europea.
Questo parlamento dopo l’approvazione della Convenzione di Istanbul e la legge sul femminicidio, può quindi, a partire dal Jobs Act, lavorare anche sui provvedimenti economici dando così un senso di rappresentanza a tutto tondo delle istanze delle cittadine italiane. Facendo così fare contemporaneamente un passo avanti anche alle Conferenze donne o agli organismi delle donne nei nostri partiti: organismi che spesso servono a tutelare il principio della rappresentanza, ovvero dell’esserci, senza però aiutare a creare dibattito o elaborare politiche che ci permettano di rappresentare al meglio gli interessi delle cittadine.
Sarebbe opportuno che lo schieramento ampio creatosi tra colleghe di partito diversi intorno alla legge elettorale, possa, una volta ottenuto il riconoscimento della rappresentanza di genere nella legge elettorale, lavorare insieme già da questa settimana per femminilizzare il Jobs Act, andando così anche a completare l’importante provvedimento in discussione alla Camera questa settimana contro le dimissioni in bianco.
Avanzo tre temi per stimolare il dibattito: la defiscalizzazione delle assunzioni femminili, così come già fatto per i giovani; l’allungamento del congedo di paternità obbligatorio che renderebbe più eguale il costo-opportunità dell’assunzione dei giovani donne e giovani uomini; la sperimentazione di “contratti di collaborazione di pubblica utilità” sul modello della Francia o dei paesi scandinavi, che vadano anche a rispondere a necessità nell’ambito dell’economia di cura il cui peso spesso ricade sulle spalle delle donne in aggiunta al carico di lavoro.
Se nei prossimi giorni non riusciremo ad allargare il raggio del senso della nostra rappresentanza, dal principio al contenuto, correremmo davvero il rischio che la battaglia per essere rappresentate in parlamento venga letta come un tentativo della politica di assicurarsi dei posti, e non di rappresentare istanze e bisogni.
http://www.europaquotidiano.it/2014/03/10/un-senso-in-piu-alla-parita-di-genere/
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