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Diario di bordo. Quattro stati, una nazione: gli USA visti da vicino

Quattro stati, una nazione: gli Stati Uniti visti da vicino

Prologo

Stamattina inizio un percorso fitto di incontri e conferenze in quattro stati americani, per conoscere interlocutori per il mio lavoro e la American way of life, per raccontare l’Italia.

Inizio con le parole di Italo Calvino in un saggio non pubblicato, Un ottimista in America: “Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e ‘altra da me’, come non mi era mai capitato. È successo qualcosa di simile a un innamoramento”.

Vi racconterò da qui. Con gli occhi, le orecchie e la testa ben aperte.








Tappa 2: la giornata di oggi vista dall’altra sponda dell’Atlantico

La giornata di oggi, con i tanti, troppi morti, il dolore e la paura, vista da qui e’ un’altra giornata. Perché la notizia di oggi negli Stati Uniti è invece la sentenza della Corte Suprema sui matrimoni gay legali in tutti gli stati. Correndo tra un appuntamento e l’altro tra Congresso, Commissione Esteri del Senato, National Defense College, ho visto tante tv accese su Washington, la Corte Suprema, il discorso di Obama, i funerali di Charleston, ma nessuna TV si soffermava su quello che stava accadendo tra Sousse, Lione, la Somalia e il Kuwait. Sono rimasta molto colpita, perché vedevo la conferma di quella distanza sperimentata da noi europei durante la marcia di Parigi dopo l’attentato di gennaio dove non erano presenti americani. Quella che noi percepiamo come distanza qui viene in ogni colloquio sottolineata come una richiesta pressante affinché l’Europa diventi leader positivo nel Mediterraneo, prendendosi la responsabilità di favorire sviluppo, stabilità e sicurezza sul fronte sud. La giornata di oggi però vista da qui presenta una sfida: fare si che le due sponde dell’Atlantico, divise da priorità diverse, affrontino insieme le sfide di un mondo che cambia. In fondo, la sentenza di oggi della Corte Suprema non deve esser vissuta come una notizia americana da vivere solo guardando in modo autoreferenziale alle conquiste raggiunte in questo paese. La sentenza di oggi è ancora più simbolica in questa giornata, anche per l’Europa e per tutto il mondo libero anche perché è un passo in avanti verso una società più aperta, inclusiva, capace di dare spazio alle differenze. Proprio quella società che i fanatici assassini di oggi vogliono spaventare. Va rinsaldato il legame transatlantico, la condivisione delle responsabilità internazionali, perché è solo dall’unione delle democrazie, dall’estensione dei diritti, che può scaturire la forza per contrastare il terrore, e per difendere i diritti di tutti, da Washington a Tunisi, a Kuwait City. Domani chi va al Pride della mia città non dimentichi la complessità della giornata di oggi.









Intermezzo

La linea F dei tram di San Francisco, con la linea 33 dei tram di Milano. Un balzo in gola del mio cuore. Bellissima idea dell’amministrazione di San Francisco di usare tram da tutte le parti del mondo per questo servizio di trasporto.










Tappa 3: Le università

Ecco il panorama dalla torre dell’Universita di Berkeley. Oltre a una vista mozzafiato, questa e’ una immagine simbolica del sistema universitario americano: fatto per guardare lontano. Bellissimo il Center for Middle Eastern Studies di Berkeley, utile discussione su come aumentare l’efficacia degli aiuti nel quadro della riforma della cooperazione italiana al CEGA (Center for Effective GlobalAction), bel confronto con la professoressa Martha Crenshaw che insegna un corso sul contro-terrorismo a Stanford. Una giornata piena di idee e spunti per guardare lontano. Con un impegno, per il ritorno in Italia: lavorare perché le nostre università possano meglio raccordarsi con quello che fa la politica sul versante delle relazioni internazionali e della cooperazione allo sviluppo.















Tappa 4 – la comunità arabo-americana a Dearborn, Michigan

A Dearborn, Michigan, si trova la più grande comunità di arabi-americani di tutti gli Stati Uniti: dei 98mila abitanti di questa città, 40mila sono arabi. Come ci ha spiegato il professor Ron Stockon dell’Universita’ del Michigan, il 37% proviene da Libano o Siria, il 35% dall’Iraq, il 12% dalla Palestina e dalla Giordania, il restante da altri paesi del Medio Oriente. A Dearborn, tra la chiesa armena e una chiesa protestante, c’è anche la più grande moschea degli Stati Uniti, davanti alla quale, per volontà della comunità locale che ha raccolto i 20 milioni di dollari necessari a costruirla, sventola una grande bandiera americana. Il capo della polizia di Dearborn Ron Haddad, di origini siriane, cristiano, ha ridotto dell’83% il tasso di criminalità di quella che 15 anni fa era tra le dieci città più pericolose d’America grazie soprattutto a una azione di prevenzione che coinvolge i cittadini a partire dalle associazioni e comunità religiose. Sempre a Dearborn opera l’associazione BRIDGES (Building Respect in Diverse Groups to Enhance Sensitivity) che promuove il dialogo e la cooperazione tra la comunità araba-americana e le istituzioni americane (il municipio, il Congresso, il Dipartimento delle migrazioni, i giudici, FBI) su questioni che vanno dalla immigrazione alla sicurezza nazionale. E’ una associazione che è stata presieduta fino a pochi mesi fa da Ali K. Hammoud, avvocato di 38 anni, di seconda generazione di origine libanese che ora presiede l’Arab-American Political Committee. Sempre il professor Stockon ci dice che i suoi studenti davanti a manifestazioni di islamofobia mostrano disappointment, cioè delusione “quando potremo essere considerati americani e basta anche noi?”. Certamente intorno ai temi della cittadinanza, con diritti e doveri, del coinvolgimento delle comunità religiose e di provenienza nel fra rispettare le regole, del confronto – che implica anche il disaccordo – ruota una parte dei risultati raggiunti dalla comunità araba-americana di Dearborn.

















Tappa 4 – Happy birthday America

Il 4 luglio è la festa dell’Indipendenza in cui si commemora la firma della Dichiarazione di indipendenza (che va letta, perché è la Dichiarazione di Indipendenza Più Bella Del Mondo) nel 1776.

È una festa molto sentita: le bimbe vanno in giro con i nastrini a stelle e strisce nei capelli, le ragazze hanno lo smalto delle unghie start&stripes, tanti sono vestiti oggi di bianco rosso e blu. E’ una giornata da passare in famiglia, con un barbecue.

Non c’è quella solennità un po’ pomposa che crea distanza nelle nostre feste nazionali. È una festa allegra e di tutti, una festa di popolo. Una festa di una nazione di immigrati che desiderano riconoscersi nei simboli nazionali e passare una giornata gioiosa ricordando che tutti gli uomini sono stati creati uguali e che hanno il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Una festa che si conclude con i fuochi di artificio, il simbolo migliore di quello che Amir Music, bosniaco, arrivato qui nel 1996, ora cittadino americano e responsabile dell’ufficio di San Francisco dell’International Rescue Committe, mi ha detto “qui tutti devono poter sentire che si può diventare americani”.











Tappa 5 – I memorial dell’11 settembre

Tutti ci ricordiamo dove eravamo, quell’11 settembre di quasi 14 anni fa. Tutti ricordiamo lo sgomento, l’orrore, il senso di profonda ingiustizia davanti a quelle immagini. Visitare i monumenti del ricordo, al Pentagono a Washington e dove c’era il World Trade Center a New York però riporta alla dimensione più umana e tangibile di quanto accadde allora. Ci sono i nomi delle vittime, le parole scelte per confortare le famiglie. Al Pentagono per accedere al luogo di preghiera inter religiosa si passa attraverso due lunghi corridoi, dove lungo le pareti sono appese delle quilt, trapunte che sono state realizzate in tanti angoli dell’America dopo gli attentati e mandate al Pentagono, in segno di conforto dei parenti delle vittime. A New York, invece, il ricordo si affaccia su due vasche che coprono la superficie dove sorgevano le torri gemelle: ci si affaccia su due buchi dove scorre l’acqua, che confluisce in una vasca ancora più interna, di cui non si vede il fondo. Un simbolo di un dolore, di una assenza senza fondo. A Detroit invece abbiamo visto il One Woodward Avenue, costruito prima delle Torri Gemelle con un identico design.

Seppure tutti ricordiamo cosa accadde quel giorno, solo i luoghi della memoria a me hanno restituito il senso di lacerazione collettiva di quel giorno provata qui negli Stati Uniti.












Tappa 6 – Ready for Hillary

Finalmente ci sono stata! Nel quartiere generale della campagna di Hillary Clinton, per una chiacchierata con Jennifer Palmeri, alla testa del team della comunicazione. La campagna è come ce la si immaginerebbe: una grande open space, ci lavorano già più di 200 persone, molto entusiasmo, idee chiare su obiettivi e tempi (deve essere così: ci sono quasi diciotto mesi da qui al voto, due compleanni di Hillary, dice Jennifer). Si vede in azione quello che è materiale di ispirazione anche per noi del PD: metodi capillari e nuovi di raccolta fondi (la campagna nei primi tre mesi ha battuto il record di Obama raccogliendo 45 milioni di dollari, 40 dei quali da piccoli donatori che hanno versato 100 dollari o meno), l’organizzazione dei volontari (più di 120, con l’obiettivo di diventare a breve 300…) già al lavoro in una stanza per le telefonate. Ed è anche molto di più di quello che ci si immagina: ci lavorano praticamente solo ragazzi. Anzi, soprattutto ragazze. Le parole d’ordine sono scritte sul muro: lavoriamo avendo chiari in mente i valori per cui si batte Hillary, duro lavoro, servizio, giustizia, e fede nel sogno americano. Chiunque ti accolga lo fa con grande attenzione a chi sei, e ringraziandoti per la visita. Diciotto mesi sono lunghi, pieni di cambiamenti, prove e rischi. Ma saranno diciotto mesi in cui in tanti faremo il tifo per voi, e per Hillary. Buon lavoro!















Intermezzo – Due strade di New York

E non c’è bisogno di commentare..









Tappa 7 – Detroit, una Araba fenice

Detroit, la fenice urbana che prova a risorgere grazie agli immigrati. 

L’ex capitale dell’auto Usa contava più di due milioni di abitanti negli anni Settanta, oggi ne ospita circa 600mila. Dopo le rivolte urbane, le tensioni razziali e il dilagare della criminalità la città prova a ripartire. E lo fa investendo negli immigrati e nelle associazioni spontanee






















Epilogo

Oggi sono ad Addis Abeba. Il percorso americano si conclude qui, alla Conferenza per il finanziamento dello sviluppo, promosso dalle Nazioni Unite nell’anno in cui le nazioni del mondo si impegnano per i Sustainable development goals, gli obiettivi per la sostenibilità che orienteranno i prossimi 15 anni di lotta alla povertà. Qui ad Addis si parla esattamente degli stessi temi affrontati nelle settimane americane: instabilità, conflitti, diseguaglianze, migrazioni. Ma visti da qui, quegli stessi problemi hanno altri nomi, responsabilità comuni ma differenziate, rimesse, aumento degli aiuti, sostenibilità. In mezzo, tra le due visioni, l’Italia: che qui ad Addis è presente con una delegazione di altissimo livello (Renzi arriverà appena concluso il summit europeo sulla Grecia), con la riforma della cooperazione e l’impegno ad aumentare le risorse per lo sviluppo (0,3% del Pil per gli aiuti entro il 2020). Ma soprattutto l’Italia, che può svolgere un ruolo cruciale nell’area del Mediterraneo e come ponte verso l’Africa. Le notizie dalla Libia, con l’inizio di un accordo, fanno ben sperare per una mediazione per noi importantissima. L’impegno di questo governo, con le visite in Etiopia e Kenya domani e dopo del presidente del Consiglio, testimoniano il lavoro che si sta facendo verso e con l’Africa.


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