È stata un campagna elettorale difficilissima, in cui sono venuti al pettine tutti i nodi mai sciolti del PD: visione, insediamento sociale, organizzazione di partito. Nodi che non abbiamo affrontato, neanche alla prova delle sconfitte, e che ci hanno presentato il conto all’apertura delle urne. E non basta che Enrico Letta, con l’atteggiamento serio che lo caratterizza, si sia assunto ieri la responsabilità della sconfitta, annunciando un congresso a cui non si presenterà. Sì, serve un congresso, approfondito, vero, che non si limiti a scegliere solo un altro o un’altra leader. Il PD è stato guidato in 15 anni da 7 segretari diversi, per storia, per impostazione politica, eppure i problemi sono tutti lì.
In un mercato politico in cui gli elettori e le elettrici sono mobili, è da troppo tempo che abbiamo rinunciato a conquistare nuovi elettori e elettrici e ci crogioliamo nello schema del “portare a votare i nostri” pensando che questo basti. Pensare ai “nostri voti” è un atteggiamento sbagliato che dà per scontato un voto identitario che non c’è più.
In fondo i partiti nascono per questo: per elaborare una idea di Italia e di futuro, per promuovere buone cause civili e sociali, per raccogliere il consenso, con l’obiettivo conquistare la maggioranza degli elettori e di andare al governo per imprimere un cambiamento nella società. Negli anni in cui abbiamo governato, non ci siamo mai chiesti come aumentare il consenso, ma solo cosa fare al governo e come fare alchimie per restarci. Alla fine ci appassiona solo la discussione sugli aspetti tecnici delle politiche e sulle alleanze.
Non discutiamo neanche più di politica né abbiamo mai utilizzato le possibilità di consultazioni tematiche, prevista dal nostro statuto, per paura che “fossero divisive”, ma così lasciamo convivere tesi contrapposte su questioni essenziali e di conseguenza non riusciamo a promuovere un impegno costante dei nostri militanti. Abbiamo accantonato le primarie come metodo per scegliere i candidati coinvolgendo gli elettori e siamo rifluiti sulla ricerca ossessiva di accordi dicibili e indicibili tra potentati locali e nazionali. Gli iscritti e i militanti del Partito Democratico sono stati usati per fare la conta e decidere in stanze ristrette chi farà il ministro, chi il segretario regionale e chi l’assessore. Siamo nati per essere una forza di rinnovamento della società italiana e ci siamo adagiati a essere il partito dell’establishment. Facciamo della democrazia la nostra caratteristica fondante, e finiamo per non esercitare mai la democrazia al nostro interno. Abbiamo una classe amministrativa diffusa e capace, un vero insediamento territoriale capillare eppure il territorio viene usurpato in favore di logiche e candidati “romani”. È anche dalla mancata chiarezza su visione, identità che nascono i problemi di comunicazione: difficile comunicare bene, se non sai dove vuoi andare.
Affrontiamo una buona volta questi nodi che ci soffocano. Il congresso sia una contesa vera tra diverse idee di Italia e dalla discussione su come ci organizziamo per sostenere nella società queste idee. Una contesa aperta agli elettori, una contesa leale. Non un accordo tra fazioni per chi si spartisce un bottino di voti sempre più esiguo. Apriamo le porte, le finestre, ascoltiamo chi ha idee diverse, chi ha studiato le trasformazioni del nostro paese, prestiamo attenzione alla tanta rabbia e delusione di chi non ci ha votato o ha fatto fatica a votarci. Avanti, senza paura di guardare in faccia gli errori e senza recriminazioni. Apriamoci, ricostruiamo.
P.s. E no, non basta dire che a Milano il Pd ha retto, che a livello nazionale la coalizione di centrosinistra ha tenuto i voti del 2018 (anche se il PD ha perso quasi 800mila voti). Tutto vero, ma non basta.
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