top of page

LA GUERRA IN UCRAINA È UNA GUERRA EUROPEA | INTERVISTA PER IL RIFORMISTA

Lia Quartapelle, Vice presidente della Commissione esteri della Camera, è tra i dirigenti del Pd più impegnata sui temi di politica estera e di geopolitica.


“Per quanto si voglia rimuovere questo fantasma, siamo vicini all’alternativa del diavolo: guerra totale – quindi nucleare – contro la Russia oppure graduale abbandono di Kiev al suo destino. Lo scontro diretto con Mosca, nel quale probabilmente sarebbe coinvolta la Cina, sarebbe terza guerra mondiale. Dalla quale difficilmente uscirebbe un vincitore”. Così il direttore di Limes, Lucio Caracciolo in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

I toni allarmistici non servono a nessuno. Non servono a spiegare all’opinione pubblica cosa stiamo vivendo e aiutarli a prendere consapevolezza delle decisioni difficili che i loro governi stanno assumendo. Dire che l’alternativa è tra la guerra nucleare e l’abbandono di Kyiv è il modo migliore per favorire paura, sconcerto e anche per fomentare l’indifferenza. Come se quello che abbiamo fatto finora non stia portando risultati. Le sanzioni all’economia russa, il sostegno militare all’Ucraina, il continuo consultarsi tra Paesi dell’Occidente producono risultati. La Russia, indebolita economicamente e tecnologicamente dalle sanzioni, è costretta a piegarsi e diventare un vassallo economico della Cina, come emerso durante la visita di Xi a Putin; l’Ucraina grazie al sostegno militare è stata in grado di resistere e addirittura di riconquistare più del 50% dei territori persi nell’invasione del 24 febbraio 2022. L’Occidente si muove in modo risoluto e unitario, come non accadeva da tempo. Nessuno sottovaluta i rischi della situazione in cui ci troviamo, tra cui anche il rischio di un incidente nucleare voluto dalla Russia (l’Ucraina ha ceduto alla Russia le proprie testate nucleari nel 1994 durante il vertice di Budapest, in cambio del rispetto della propria integrità territoriale da parte della Russia). Ma è grazie a quello che si è messo in campo che finora si è evitato lo scontro diretto tra Unione europea e Russia; è grazie alle decisioni prese (e le interazioni dietro le quinte tra Stati maggiori russo e statunitense) che ci sono meccanismi di salvaguardia che finora hanno evitato l’escalation della guerra. Ed è anche grazie a questo che si può intensificare l’attività di diplomazia e pressione affinché la Russia termini l’invasione. Le visite in Cina di questa settimana hanno appunto l’obiettivo di verificare se ci possa essere un impegno diretto di Pechino per il rispetto dell’integrità territoriale dell’Ucraina e quindi per una vera pressione su Mosca anche da parte di Xi.



Sostiene Caracciolo: “Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui. Più degli americani, noi italiani e altri europei occidentali abbiamo davvero creduto nella fine della storia. Di esserne lo scopo: abbiamo immaginato l’Europa come lo spazio che per primo avrebbe superato lo Stato nazionale in vista di un utopico impero universale del diritto e della pace”. Questa guerra chiama in causa l’Europa. È una guerra europea per la sua geografia, per la sua storia (nasce dal desiderio dell’Ucraina di aprire un accordo di associazione con l’Unione europea), e sarà europea la sua soluzione. Soprattutto, lo scontro è tra due idee diverse di rapporti tra Stati: come ha scritto il professor Timothy Snyder, c’è l’idea imperialista di Putin, della sottomissione degli Stati confinanti, e c’è l’idea della confederazione tra Stati, in cui gli Stati negoziano in forma pacifica i propri interessi, che è l’idea che tiene in piedi l’Unione europea. Non direi quindi che l’Europa è fuori gioco, anzi, è al centro di questa vicenda epocale. Starà all’Europa trovare il modo di ottemperare al proprio ruolo in modo adeguato in questo frangente storico. Nei primi giorni dopo l’invasione russa contro l’Ucraina, le istituzioni europee e insieme le capitali nazionali, quindi l’Europa tutta, hanno reagito con una prontezza e determinazione che ha sorpreso gli Stati Uniti e forse persino noi stessi. Le decisioni sulle sanzioni, sui visti, sugli acquisti comuni di armi sono state compiutamente all’altezza del ruolo geopolitico che l’Unione europea può e deve giocare in questo frangente.



E poi cosa è successo?

È subentrata una stagione in cui è sembrato che soprattutto alcune capitali si fossero spaventate del proprio coraggio. C’è stato quindi un rallentamento sul fronte delle decisioni sull’energia e rispetto all’iniziativa da prendere nei confronti del sud globale. Ora, anche in vista del grande appuntamento democratico delle elezioni europee del 2024, è il momento che i leader politici europei chiariscano qual è il loro progetto per il futuro dell’Europa. È finito il tempo in cui si può credere che sia “inevitabile” arrivare a una Unione più stretta. Io credo che le sfide che abbiamo davanti richiedano un’Europa più integrata anche in senso federale. Ma questo succederà solo se i leader e gli elettori si impegneranno in una scelta che è tutta politica, prendendo decisioni ambiziose sulla difesa comune, sulla politica estera comune, sul rafforzamento degli strumenti propri dell’Unione per affrontare insieme transizione energetica e sfida climatica. Non c’è migliore momento per farlo che ora.



“Per l’America meglio le democrature dell’UE. Chi ci salverà dall’Occidente?”. Così questo giornale ha titolato una intervista a Mario Tronti. Mentre Putin manda centinaia di migliaia di cittadini russi a combattere e morire per una guerra di aggressione insensata, le democrazie si stanno attrezzando per proteggere i propri cittadini dagli effetti collaterali della guerra sull’economia e sulla sicurezza energetica. Le democrazie hanno un handicap e al tempo stesso una forza rispetto alle dittature: non possono agire di sorpresa e devono rispondere di quello che fanno ai loro cittadini. Ripensare la propria agenda internazionale e nazionale è quindi un compito arduo ma ineludibile per la politica democratica. Dobbiamo proteggere la nostra economia, i lavoratori e le imprese. Incalzeremo il governo perché ci siano altri interventi straordinari di aiuti, ma anche misure decise di politica industriale e commerciale e perché queste decisioni siano decisioni europee. Da anni le potenze autoritarie impiegano misure di protezionismo e nazionalismo economico per estendere la propria influenza e costringere altri paesi a sottomettersi. L’apertura dei mercati è necessaria ma non deve tradursi in vulnerabilità: bisognerà quindi bilanciare gli interventi a sostegno del commercio internazionale con una strategia industriale elaborata di concerto con gli alleati, che preveda interventi di tipo regolamentare quali le politiche di difesa commerciale in materia di dumping o sussidi, la capacità di adottare strumenti di contrasto alla coercizione economica da parte di paesi terzi, la tutela di settori strategici rispetto agli investimenti stranieri. Solo con una strategia industriale complessiva si promuoveranno il lavoro buono e la crescita sostenibile sul piano sociale e ambientale. Se riusciremo a fare tutto questo, mostreremo la vera forza delle democrazie: forse più lente a reagire, ma più capaci di rispondere a sfide complesse e articolate.



A uno Stato fallito, la Libia, sembra aggiungersene un altro sulla sponda sud del Mediterraneo: la Tunisia. Ma l’Europa continua nella sua politica di esternalizzazione dei confini.

La vicenda tunisina è paradigmatica della fragilità e preziosità delle democrazie, e di quanto sia necessario attivarsi per accompagnare la transizione democratica, soprattutto nel sud globale. Con la Tunisia non è stato fatto. Non si sono trovate le risorse per proteggere l’economia tunisina dai colpi ricevuti dal terrorismo e dagli effetti del covid. Il risultato è stato che il paese si è avvitato in una spirale di instabilità sociale e economica culminata in un colpo di stato populista e inconcludente. Uscire da questa situazione non sarà facile. Ha fatto bene il Commissario Gentiloni a provare a incontrare tutti gli attori istituzionali con una proposta europea di rilancio complessivo del paese. Mentre penso sia illusorio pensare, come fa il ministro Tajani, che basti proporre uno scambio tra soldi del FMI e controllo dei flussi migratori per evitare che la situazione tunisina degeneri. Quel paese va accompagnato in una transizione economica, sociale, costituzionale e in ultima istanza democratica affinché torni a essere stabile.




Migranti, Pnrr, guerra. Che voto dà al governo Meloni in politica estera?

La scelta di schierarsi con l’Ucraina non è una scelta di questo governo, ma di Meloni all’opposizione. Una scelta giusta e coraggiosa che ha dato a Meloni la patente di politica capace di anteporre gli interessi del Paese alle convenienze di parte. Quello che Meloni è stata capace di fare all’opposizione, non riesce a farlo dal governo. Soprattutto quando gestisce dossier come le migrazioni, il PNRR o il rapporto con Bruxelles, preferisce il vittimismo o cerca lo scontro inconcludente con i partner e con Bruxelles. Questo preoccupa: chi governa deve tenere i nervi saldi e lo sguardo fisso sull’obiettivo, non cercare scuse e fomentare risse.





bottom of page