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Perchè Assange non è salito al Quirinale


Il conflitto che contrappone da mesi la Procura di Palermo e il Quirinale, con gli inevitabili spin-off polemici, sulla legittimità delle intercettazioni al Presidente della Repubblica, è un conflitto che al di là dei profili di costituzionalità pone al centro del dibattito politico più largo la questione della trasparenza degli atti del potere in democrazia. Questione già emersa in modo dirompente con la vicenda di Wikileaks, nata con l’obiettivo di rendere più limpido il modo in cui agiscono gli Stati, perché solo attraverso un’informazione totalmente libera i cittadini possono essere liberi di scegliere e fare.

Purtroppo oggi, con il discredito della politica da un lato e il populismo rampante dall’altro, dire che è nelle prerogative del Quirinale non essere intercettati – e quindi incostituzionale – non basta a dare legittimità diffusa. In primo luogo, perché non è chiaro cosa significhi una prerogativa: sembra ahimè un privilegio della politica piuttosto che una regola di democrazia.

In  secondo luogo perché la vicenda di Wikileaks più di ogni altra, ma più in generale l’avvento di nuove tecnologie, avvicinano e confondono esercizio del potere e partecipazione, segnando in modo indelebile la legittimità delle istituzioni e i modi attraverso cui il potere viene esercitato. La maggior parte dei cittadini italiani (più del 60% in un sondaggio SWG effettuato pochi giorni dopo i leaks) considerava Julian Assange un cyber-Robin Hood, che perseguiva un obiettivo – quello della trasparenza dell’agire pubblico – condivisile e giusto. Non deve quindi stupire che, per quanto la Presidenza della Repubblica sia l’istituzione che oggi in Italia ha più credibilità in assoluto, la Procura di Palermo sia stata vissuta come un altro Robin Hood.

La segretezza sulle intercettazioni di Napolitano non può non essere considerata anche in questo contesto, ovvero all’interno di un dibattito molto contemporaneo sui meriti della pubblicità degli atti di democrazia. Infatti, se la democrazia – a differenze delle autarchie – è tale, è perché vige un controllo sulle proprie azioni, che devono essere pubbliche. Ed è in questo punto che si apre un’ambiguità sui limiti dell’accettabilità dell’uso del segreto in democrazia che, se non chiarita, rischia di aprire spazi devastanti al populismo.

Per rispondere si può forse fare riferimento a un saggio di Norberto Bobbio del 1984 “Le promesse non mantenute della democrazia“, in cui Bobbio spiega che visibilità del potere (sapere chi comanda davvero) e pubblica conoscibilità dei suoi atti (conoscere con chiarezza le decisioni prese e le azioni intraprese da chi comanda) sono le caratteristiche fondanti di una democrazia. Al controllo pubblico del potere (di chi lo esercita, di come lo esercita) si aggiunge un ulteriore elemento che rende accettabile l’utilizzo del segreto in democrazia: la totale pubblicità della discussione sulle regole del segreto in democrazia. Ed è per questo che il ricorso sul conflitto di attribuzioni avanzata dal Quirinale al Csm è un passo avanti e non un oscuro maneggio antidemocratico per occultare verità scomode: perché aiuta a chiarire quali siano le regole del segreto ammissibili per il funzionamento – aperto, trasparente, chiaro – democrazia italiana.

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