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Sarkozy in Africa impone l’anarchia


Una comparazione del contesto entro il quale si inscrive l’intervento militare internazionale, a traino francese, avvenuto quasi simultaneamente in Libia e Costa d’Avorio permette di analizzare alcune grandi questioni relative agli assetti africani dei prossimi anni a venire.

In primo luogo, c’è la questione del ruolo e dell’efficacia dell’Unione africana e delle Commissioni economiche regionali nella gestione delle crisi africane. Il mantra delle ultime crisi del continente nero è stato «soluzioni africane per crisi africane». Il violento impasse del Kenya nel 2008 è stato affrontato con una mediazione guidata dall’ex-segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. La questione in Zimbabwe, ancora non definitivamente risolta, è stata gestita attraverso una mediazione regionale ed è stata sbloccata solo grazie alle pressioni degli Stati africani confinanti. In Sudan, intorno al referendum, si sta concentrando uno sforzo notevole di mediazione panafricano, guidato dall’ex-presidente sudafricano Thabo Mbeki che, insieme all’attenzione dei principali partner commerciali del Paese, sta portando a una transizione più pacifica di quanto molti analisti si sarebbero attesi. L’Africa, quando fa da sé, sembra cavarsela meglio di quando diventa oggetto di un intervento esterno.

Questo è quanto sta accadendo in Costa d’Avorio: la risolutezza dell’Unione africana e della Commissione economica regionale (Ecowas) nel riconoscere la vittoria di Alassane Ouattara nelle elezioni presidenziali ivoriane di novembre è un pilastro della – si spera vicina e si spera il meno sanguinosa possibile – soluzione della crisi in Costa d’Avorio.

L’atteggiamento dell’Ua verso la Libia, che al più si può definire dimesso, rende invece molto più complessa una risposta a questa situazione. Complice forse il ruolo non solo di grande finanziatore dell’organizzazione ricoperto dalla Libia, che contribuisce al 15% del budget che viene dai Paesi membri dell’organo panafricano, ma anche di ingombrante sponsor istituzionale (Gheddafi l’ha presieduta tra il 2008 e il 2009 tra molti imbarazzi legati non solo alla dimensione folkloristica del personaggio, ma soprattutto alla sua bulimia di iniziativa), l’Unione africana non è stata in grado di produrre un’iniziativa di pressione e di azione diplomatica pari a quanto successo in altre occasioni. I tentativi di mediazione tra i ribelli e Gheddafi promossi dall’Ua non sono andati a buon fine: i difensori dell’Ua sostengono che in questo caso sia mancato proprio il supporto della comunità e dei Paesi occidentali ad una possibile azione di mediazione. I tre membri africani del Consiglio di sicurezza (Gabon, Nigeria e Sudafrica) hanno votato a favore della risoluzione che ha autorizzato l’inizio dei bombardamenti sulla Libia, mentre l’Ua ha chiesto un cessate il fuoco, unendosi a chi è contrario ai bombardamenti di Unified protector. Per il Nord Africa, inoltre, non esiste una potenza regionale o un’organizzazione regionale che possa fare da apripista per un’azione dell’Ua: questo ruolo era sempre stato riconosciuto alla Libia stessa.

Se non si è ancora giunti a una soluzione militare in Libia, è forse anche a causa della poco incisiva posizione africana. Certamente, l’Ua perde un’occasione storica: di dimostrare di essere davvero un’organizzazione panafricana, che sa gestire le crisi “dal Cairo al Capo” e non solo le crisi dell’Africa nera. In secondo luogo, le due crisi fanno emergere un rinnovato attivismo francese in Africa, persino al di là della tradizionale sfera di influenza della Françafrique. La legittimità di intervenire che viene riconosciuta alla Francia è però oggetto di discussione: mentre in Libia la Francia si è accodata – con grande rapidità e sagacia – a proteste che già esistevano, i dieci anni del conflitto ivoriano e il portato della Francia nel Paese rischiano di alterare la lettura di un intervento simile a quello in Libia quanto a operatività. Alassane Ouattara, per il 45% della popolazione ivoriana che ha votato Laurent Gbagbo, è un fantoccio dell’Occidente (e dei francesi in particolare): l’azione militare in Costa d’Avorio, quindi, rischia di essere percepita almeno a livello africano come una ennesima manifestazione del neo-colonialismo francese in Africa.

Infine, c’è la grande questione del vuoto che si apre dopo la caduta del presidente – o del leader carismatico. L’intervento militare per proteggere i civili potrebbe con molta probabilità causare la dissoluzione del potere centrale e potrebbe avere come conseguenza l’anarchia. Quella che nelle prossime ore dovrebbe essere la fine politica di Laurent Gbagbo, tra qualche settimana o mese potrebbe ripetersi in Libia. L’impasse ivoriano è dovuto anche al credere, in modo un po’ ingenuo se non stolido, che la democrazia, attraverso le elezioni, possa contribuire a risolvere i problemi di assetti istituzionali fragili e di contesti conflittuali. Se una lezione per la Libia deve essere tratta dalla Costa d’Avorio, per meglio orientare sia l’impegno africano che quello internazionale capeggiato dalla Francia, è che la democrazia non viene con le sole elezioni, e le elezioni non sono la garanzia della ricostruzione di un Paese che esce traumatizzato da vicende che ancora risentono dei guasti dell’impostazione coloniale.

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