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Il neonato Sud Sudan sembra già uno stato fallito


Nell’epoca del “too big to fail”, il Sud Sudan nasce oggi sotto una stella – da questo punto di vista – non necessariamente benevola. Se infatti alcuni degli istituti finanziari internazionali sono ritenuti troppo grandi – e troppo interconnessi con i gangli vitali del sistema economico internazionale – per permettere loro di fallire, il 193esimo Stato che si unisce oggi al consesso delle nazioni è esattamente agli antipodi del concetto “too big to fail”.

L’ultimo nato del continente africano, infatti, nasce dalla scissione volontaria della parte nera, bantu, dal più vasto Stato africano, il Sudan, in seguito alla guerra civile tra Nord e Sud e alle disposizioni contenute nel Comprehensive Peace Agreement, firmato in Kenya nel gennaio del 2005.

La vicenda dell’indipendenza del Sud Sudan ricorda per più ragioni quella dell’Eritrea, l’altro paese africano nato dalla dissoluzione degli assetti statuali post-coloniali dopo la fine della guerra fredda. Anche l’indipendenza dell’Eritrea arrivava nel 1991 dopo lunghi anni guerra civile, e veniva guardata con preoccupazione non solo da chi per anni aveva sostenuto per ragioni storiche e politiche l’unione con l’Etiopia, ma anche da chi riteneva che dal punto di vista dello sviluppo economico, l’Eritrea indipendente avrebbe avuto più difficoltà ad affrontare il proprio destino di libertà a causa delle ridotte dimensioni del mercato interno e dello scarso peso che avrebbe avuto sul mercato internazionale. Le vicende di conflitto che hanno visto Etiopia ed Eritrea contrapporsi a partire dal 1998, così come l’inasprirsi della situazione politica interna e il consolidarsi di un potere autocratico e anti-democratico non permettono di giudicare il cammino dell’Eritrea indipendente in modo da prescindere da questi avvenimenti.

Anche lo Stato del Sud Sudan nasce “nudo e vulnerabile”, come recita la pubblicità di una nota Organizzazione non governativa uscita in questi giorni. Molti osservatori lo qualificano come uno Stato fallito, già prima di nascere: la popolazione sud-sudanse conto poco più di 8 milioni di abitanti, metà dei quali (il 50,6%) vive con meno di un dollaro al giorno. Solo il 48% dei bambini va a scuola, e sempre il 48% dei bambini è malnutrito. I confini non sono ancora ben definiti: resta ancora aperto il nodo della regione di Abyei, ricca di petrolio ma soprattutto di acqua, relativamente alla quale un referendum – la cui data non è ancora stata fissata, anche se avrebbe dovuto tenersi nel gennaio 2011 – dovrà decidere se diventerà parte del Sud Sudan o del Sudan.

La capitale del Sud Sudan è conosciuta come “il più grande villaggio del mondo”, a ricordare che il nuovo Stato si trova in una situazione di mancato sviluppo. Il Paese può vantare solo 40 chilometri di strade asfaltate (e 4mila chilometri di strade per un paese di una superficie del doppio dell’Italia). Non sono solo le condizioni di sottosviluppo, dovute anche al conflitto civile più lungo del mondo e alla negligenza da parte del governo di Khartoum: ciò che preoccupa è la capacità che avrà uno Stato così piccolo, senza quadri adeguatamente preparati e senza infrastrutture, di inserirsi nei giochi dell’economia globalizzata.

Certo, il Sud Sudan ha il petrolio. Circa l’80% delle risorse petrolifere, che rendevano il Sudan unito il terzo produttore di petrolio dell’Africa sub-sahariana nel 2010, si trovano in Sud Sudan. Con l’indipendenza, si è trovato un accordo per la divisione dei proventi di questa risorsa e per l’utilizzo degli impianti di raffinazione e delle infrastrutture per l’esportazione, che si trovano nel Nord. La presenza del petrolio, però, è un elemento di preoccupazione in più per quanto riguarda la capacità che il Sud Sudan avrà di iniziare un percorso di industrializzazione e diversificazione della propria economia. Le dimensioni ridotte della popolazione, lo stato più che arretrato della struttura economica del Paese, l’eterna maledizione delle risorse che pesa su molti Stati africani, fanno temere per il Sud Sudan un destino più vicino a quello degli altri produttori africani di petrolio – la Nigeria, l’Angola – che sperare per un cammino simile a quello intrapreso dai principati del Golfo.

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