Il risultato delle elezioni presidenziali in Iran è stato inatteso. In primo luogo, gli osservatori non si aspettavano il dato dell’affluenza. Si riteneva che in un paese dove le manifestazioni dell’opposizione erano state duramente represse nella scorsa tornata delle presidenziali e dove la maggior parte dei cittadini – almeno delle zone urbane – vive in una condizione di precarietà dovuta al regime di sanzioni internazionali, la competizione elettorale, fortemente limitata, non sarebbe stata molto sentita. Alcuni esponenti dell’opposizione in esilio avevano addirittura predetto che il vero vincitore delle urne, in assenza di candidati dal chiaro profilo riformista, sarebbe stata l’astensione. In realtà, il 72 per cento degli elettori si è recato alle urne.
In secondo luogo, è stato inatteso il risultato, non solo per gli osservatori occidentali ma soprattutto per i principali attori nazionali. La Guida suprema Ali Khamenei non si era pronunciato sul candidato che avrebbe sostenuto, secondo alcuni osservatori per non danneggiarlo, ma certo non si aspettava che a vincere sarebbe stato il candidato più aperto alla possibilità di dialogare con l’Occidente. Anche i riformisti sono stati presi in contropiede: il loro voto alla fine è andato a Rouhani che però non era la loro prima scelta (sarebbe stato Rafsanjani, la cui candidatura è stata bocciata dal Consiglio dei Guardiani) né la seconda (Mohammad Reza Raef, che si è ritirato pochi giorni prima del voto).
Il risultato inatteso non deve però fare gridare alla primavera iraniana. Nonostante le posizioni aperte tenute in campagna elettorale, in certi momenti anche di sfida contro il regime (quando per esempio ha parlato della liberazione dei prigionieri politici), Rouhani resta un uomo della elite religiosa del paese (era comunque l’unico candidato religioso di professione), un mujtahid e una delle persone che ha seguito Khomeini in esilio e al suo ritorno.
Le elezioni in Iran, per quanto molto lontane dall’essere giudicate libere e corrette secondo degli standard occidentali, sono state un’occasione per esprimere un dissenso contro lo status quo del paese. Dissenso che è stato recepito dall’establishment, che – a differenza del passato – sembra aver accettato il risultati elettorale.
Certamente l’Iran è uno dei paese nelle cui mani restano le soluzioni di tanti dossier complicati, a partire da quello siriano. Per trattare con serietà con l’Iran, si deve partire da questo risultato elettorale e dal candidato eletto. Senza cucirci addosso speranze o improbabili interpretazioni che prescindono dalla specificità del contesto. E tenendo conto del fatto che Rouhani, pure nelle contraddizioni del regime iraniano, è un presidente eletto da milioni di cittadini.
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