Di Marco Piantini
La riforma del governo dell’euro è un tema altamente politico. Politico, perché dalla definizione di strumenti di governo più efficaci degli attuali discende la capacità delle istituzioni europee di prevenire e affrontare con maggiori probabilità di successo i problemi dell’economia europea, e quindi della vita dei cittadini. Politico, anche se sappiamo dall’esperienza che le riforme istituzionali, specialmente quelle a livello europeo, partono nell’indifferenza da parte della politica, nella distrazione dei media, per poi finire nel groviglio di dibattiti arroventati. Si cambiano le istituzioni, invece, perché si vogliono cambiare le politiche. Questo può essere il nucleo di un nuovo riformismo. Perché, per citare Giorgio Napolitano, “ha senso, oggi, fare politica per sostenere progetti forti di cambiamento e di governo che possono ormai concepirsi solo in termini europei”.
Vale per le nostre istituzioni quanto vale per la nostra economia. Il premio Nobel Edmund Phelps ha evidenziato che il problema principale dell’economia europea è la deficiency of innovation. L’Europa fonda parte del proprio successo nella sua lunga storia nella capacità di creare e innovare; ciò si manifesta anche nelle capacità di evolversi delle sue istituzioni, come l’evolversi della Comunità europea conferma. Quella capacità deve essere ritrovata per aprire una nuova fase della politica europea che sostenga l’attenuazione dell’austerità – un passaggio accennato dal piano Juncker e dalla comunicazione della Commissione sulla interpretazione della flessibilità nel Patto di stabilità e crescita (del gennaio scorso), e più in generale dalle mosse di una Commissione più “politica” della precedente.
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