top of page

Appellarsi all’Onu non è opportunismo


No, l’Onu no. È un po’ questo quello che qualcuno ha pensato leggendo le dichiarazioni di Emma Bonino sulla Siria. Come se richiamare i principi della legalità internazionale fosse un modo per scaricarsi della responsabilità di decidere in modo chiaro sul contributo italiano alla Siria. O come se non si avesse il coraggio di dire che si è contrari all’intervento.

L’Italia è ampiamente impegnata con 1132 uomini e donne in operazioni di pace targate Nazioni Unite.

Ben più della Germania, che impiega 227 persone, e più della Francia, sul terreno con 973 militari. Quindi è difficile dire che il nostro paese vive i forum multilaterali solo come un modo per sgravarsi dalle responsabilità, vi sono delle ragioni di ordine strutturale che rendono la posizione della ministro Bonino una posizione che riguarda l’articolazione del sistema internazionale e la proiezione italiana in esso. Rimandare all’Onu in questo caso non è stato un modo per essere vuotamente pacifisti.

Richiamarsi al Consiglio di sicurezza come unico luogo di legittimità internazionale vuole dire fare i conti con il mondo per così come è cambiato negli ultimi vent’anni. In un mondo multipolare, dove ci sono potenze regionali che nei vari teatri contano di più delle potenze globali in difficoltà, è difficile pensare di intervenire con coalizioni di volenterosi variamente assortite. Perché esse, se prescindono dall’essere inclusive degli interessi in gioco nella regione (nel caso siriano, dagli interessi sauditi e iraniani, per intenderci), sono di parte, ma soprattutto sono deboli. Deboli perché si confrontano in modo antiquato con un mondo profondamente cambiato, in cui attori regionali determinano gli esiti della soluzione delle crisi con potenza analoga a quella di attori globali.

E sono deboli soprattutto perché non tengono conto del fatto che un intervento così condotto sottolinea l’impotenza, politica e anche militare, di chi attacca. Che non è stato in grado di inventarsi e di spingere per una soluzione politica, più complessa da ricercare e da forzare, ma duratura. E un attacco controllato, che presuppone l’idea di dare un segnale e in sottofondo quindi un disimpegno, è un attacco che sottolinea come la potenza o le potenze che lo fanno non sono in grado di sostenere un’azione militare complessa e lunga, e di trovare alleati. A differenza degli attori regionali, che sono di per sé quantomeno presenti nella regione.

In secondo luogo, il richiamo alla legalità internazionale serve per ragioni di serietà: se si decide di intervenire, dopo un milione e mezzo di profughi e centomila morti, in risposta a un crimine orrendo, un crimine contro l’umanità come l’uso di gas chimici contro la popolazione civile (se dovesse essere provato), non si può intervenire in modo non condiviso. A questo serve una valutazione di quanto accaduto internazionalmente condivisa: a fare sì che ogni azione per il rispetto di una orrenda violazione dei diritti umani sia una azione universalmente condivisa.

Per queste ragioni, il richiamo alla legittimità internazionale non è vuoto o di maniera. È un modo per rispondere ai cambiamenti dell’ordine internazionale, partendo da una riconsiderazione anche del ruolo dell’Italia nel mondo, dei principi che ci guidano e degli strumenti che possiamo effettivamente utilizzare.

bottom of page