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C’è un amico a Berlino


“Qual è la Germania che abbiamo conosciuto, la Germania che abbiamo amato?”. Così si interrogavano gli intellettuali (anche italiani) di inizio Novecento per cercare di spiegare quale fosse la vera Germania: se quella dell’aggressivo militarismo prussiano o quella dei filosofi, scrittori e musicisti che avevano fatto grande la cultura europea del XIX secolo.

Oggi nel dibattito politico italiano non esiste alcun tentativo paragonabile a quello di un secolo fa per capire la Germania di questi anni e aprire con essa un dialogo che non sia tra sordi che fingono di parlare ma non si ascoltano. Berlino viene raccontata, quando va bene, come un’amica distratta, tetragona nei suoi principi di stabilità, ossessionata dall’idea di “debito” come “colpa” (Schuld in tedesco) e con le spalle voltate al Mediterraneo. Quando va male, la Germania è la facile spiegazione di tutto quello che non va in Italia o come il freno alle nostre aspirazioni nazionali. Unica eccezione il presidente Napolitano, che nella sua ultima visita all’università Humboldt di Berlino, non ha perso l’occasione di ricordare i molti successi dell’amicizia italo-tedesca, non scalfiti neanche da recenti divergenze d’opinione.

Forse è a partire dal tema dei pregiudizi che si può aprire ora una riflessione pubblica per un serio e non stereotipato dialogo tra Italia e Germania, per far ripartire il processo di integrazione all’inizio di un anno che può make or break il progetto europeo. Da questo punto di vista le pretese di molte forze politiche (e persino di qualche esponente del nostro partito) di una rinegoziazione unilaterale degli impegni presi a livello europeo appaiono bizzarre e a tratti irresponsabili.

Gli sconquassi della guerra finanziaria sui debiti sovrani hanno diviso l’Europa. La tragedia greca e i continui rinvii dei consigli europei nel prendere decisioni hanno creato un clima di tensione tra i partner europei. L’architettura istituzionale comunitaria, già deficitaria all’origine e figlia di scelte rimosse ( tra tutte: l’aborto di una comune Costituzione), ha fatto emergere solo una linea di politica economica prudente e quindi recessiva. Mentre il mondo globale lancia sfide e spalanca porte, l’Europa si è avvitata su se stessa in un estenuante e sterile diverbio tra paesi virtuosi e paesi indebitati, dando la stura a pregiudizi, paure e rancori che alimentano euro-fobie ormai divenute partito.

Facile quindi che i detrattori di Berlino risolvano il dilemma di Thomas Mann (Europa tedesca o Germania europea?) denunciando la pianificazione di una “Europa germanica”. Simmetricamente nel dibattito tedesco si è fatta strada una pregiudiziale uguale e contraria verso il “Club Med” dei paesi spendaccioni, che ha fatto presa tra tutte le forze politiche tedesche, e sintetizzabile nell’interrogativo: “Perché dovremmo pagare i debiti degli altri?”. Come sempre accade quando gli stereotipi si cristallizzano in pregiudizi, si è giunti ad un punto di stallo, con leadership e opinioni pubbliche spesso in sintonia, adagiate su giudizi auto-assolutori e ormai anestetizzate alle tante proposte per uscire dal tunnel dell’austerità, che pure ci sono, ma ormai ridotte a rumore di fondo.

Abbiamo avuto la fortuna di visitare la Germania nei giorni della nascita della coalizione Cdu-Spd targata Merkel, e dovendo sintetizzare in uno slogan la principale ricetta da rubare agli amici tedeschi diremmo: “stabilità e riforme”, il che non significa imitare austeri stili di vita teutonici passando dalla “Dolce vita” alla “Deutsche vita” (come scherzano a Berlino), ma fare scelte troppo a lungo rimandate e che altri hanno già fatto.

È utile richiamare due tappe che ben rappresentano l’atteggiamento tedesco verso le scelte europee. Prima della recente crisi economica anche la Germania ha sforato i parametri europei e il ricordo dei sacrifici fatti in campi come welfare e lavoro hanno rafforzato l’idea che le riforme aiutino a solidificare un paese nei terremoti economici. Per chi lo avesse dimenticato, quegli sforzi costarono a Schroeder il suo futuro politico, così come Kohl pagò i sacrifici imposti dall’unificazione tedesca e dalla enorme operazione di ridistribuzione delle risorse che ne discese. Questo per dimostrare quanto sia forte l’attitudine tedesca per le riforme che mettono al riparo da crisi e imprevisti. Comprensibile dunque che a Berlino fatichino a essere indulgenti con l’immobilismo altrui. Tra gli altri paesi europei raramente abbiamo assistito a tanta lungimiranza, poiché si è sempre preferito l’attendismo alla volontà di indicare strategie che non fossero ispirate alla mera conservazione del benessere attuale. Ecco dunque che in questo quadro la Germania riformista (e quindi esigente verso gli altri) diventa il comodo alibi non solo per occultare le inclinazioni conservatrici interne ai singoli paesi, Italia in primis, ma anche per chi non vuole nemmeno provare a disegnare un nuovo patto politico tra i fondatori dell’Europa basato sul compromesso.

Anteporre l’unificazione monetaria all’integrazione politica non fu una scelta casuale, ma servì a riequilibrare l’impatto dell’unificazione tedesca sul mercato comune in cambio della rinuncia alla tradizionale autonomia del marco. Un compromesso politico, si direbbe, per chiudere conflitti e indirizzare l’Europa post ‘89 verso crescita e benessere solidale. Anteporre l’euro all’integrazione politica fu un errore in qualche modo voluto, nella speranza che quella indefinitezza istituzionale si completasse strada facendo. Non è accaduto e al primo collasso economico il progetto europeo, nato per sfidare il mondo, rischia di esserne strangolato.

Oggi, risolvere tutto accusando la Germania di frenare l’unificazione anziché guidarla significa non avere chiara innanzitutto la naturale riluttanza tedesca (per evidenti ragioni storiche) ad assumere una leadership internazionale. Tra l’altro è quanto meno incoerente accusare la Germania di essere troppo dominante in Europa e di non esserlo abbastanza. E poi, dopo tutto la Germania ha assunto un ruolo preponderante soprattutto per il dileguarsi, per calcolo  o interesse nazionale.

Aver lasciato il campo solo alla Germania, per altro diffidandone, non fa solo male all’idea europea ma finisce per occultare i sentieri utili a realizzare un nuovo patto, un nuovo trade off. I conti in ordine e le riforme strutturali, pur essendo condizioni necessarie – come dimostrano i paesi usciti da programmi di stabilizzazione – non sono tuttavia sufficienti a produrre sviluppo. Un fecondo dialogo inter-europeo è necessario per prevedere misure per il rilancio della crescita e soprattutto dell’occupazione (per esempio lo Youth Guarantee). Ma i compromessi si fanno almeno in due. Per condividere risorse per gli investimenti a livello europeo, in cambio è necessaria la condivisione trasparente di politiche di bilancio che prevedano controlli europei e il superamento degli interessi nazionali, che in molti paesi (l’Italia non è tra questi) vengono difesi ancora gelosamente.

L’Italia può giocare un ruolo importante nell’aiutare la Germania a uscire dal suo splendido e in larga parte non voluto isolamento, utilizzando il semestre di presidenza per facilitare un asse politico (soprattutto tra Francia e Germania) senza cui nessuna scelta è possibile. Una strategia alternativa di rottura, oltre che miope, sarebbe votata all’insuccesso e sprecherebbe l’opportunità del semestre di presidenza europea per dare al nostro paese un ruolo diverso dal rivendicazionismo improduttivo che continua a chiedere quello che non può avere, cioè regali. Non a caso, l’atteggiamento pregiudiziale e prevalentemente rivendicativo nei confronti della Germania tenuto in questi anni da buona parte della classe politica italiana ha indebolito il nostro paese: l’Italia è stata vissuta non come partner per favorire nuove soluzioni, ma come paese zavorra incapace di riforme e dedito al piagnisteo.

Come evidenziato dal discorso del presidente tedesco Gauck per l’insediamento del terzo mandato della Cancelliera Merkel: «I tre fatti storici fondamentali che commemoreremo l’anno prossimo ci mettono davanti agli occhi ancora una volta in maniera chiara il significato dell’opera di unificazione europea: il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, il 75esimo anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale e il 25 maggio che ricorda la rivoluzione pacifica nell’Europa centrale e orientale».

In queste tre date sono ancora racchiuse le principali ragioni del progetto europeo, per il quale la Germania dovrà sicuramente avere un ruolo fondamentale. Ma tocca anche all’Italia (che in questo ritroverebbe essa stessa un suo protagonismo) aiutare la Germania a ritornare protagonista del sogno federalista europeo, togliendo acqua alla pozzanghera in cui sguazza il populismo eurofobico.

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