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Con i regimi si tratta: la dottrina di Obama


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Lo ha detto Hillary Clinton qualche giorno fa alla Cnn: il senso profondo della democrazia è la capacità di fare compromessi, senza avere paura di cedere terreno alla controparte.

La Clinton parlava delle difficoltà con i repubblicani al congresso, ma si può in un certo senso riassumere con le parole dell’ex-segretario di stato quello che potrebbe essere il principale successo in politica estera dell’amministrazione Obama: l’accordo, anche se ad interim, con l’Iran sulla questione del nucleare.

Un accordo che per la prima volta cambia i termini di quanto sta accadendo in Medio Oriente: gli alleati di sempre degli Stati Uniti nella regione, per quanto disparati, Israele e l’Arabia Saudita in testa, non possono più pensare di far valere esclusivamente i loro termini, ora che si è aperto un canale di dialogo con la potenza regionale più influente (e destabilizzante), l’Iran.

Così si possono leggere anche le reazioni di Tel Aviv e Riad, fortemente contrarie all’accordo.

Nelle parole di Vali Nasr, decano della Johns Hopkins School of Advanced Studies e già consigliere di politica internazionale delle amministrazioni democratiche, «nulla sarà più come prima». Perché ci sono troppi dossier, a partire dalla questione siriana, passando poi dall’Iraq e dall’Afghanistan, per i quali la collaborazione potenziale tra Washington e Tehran può davvero significare una differenza negli assetti della regione.

E il timore di un disimpegno americano dal Medio Oriente non può però oscurare il fatto che sulla vicenda iraniana l’amministrazione Obama ha visto giusto rispetto alla diplomazia della mano tesa, probabilmente da alcuni anni, e che ha saputo cogliere la palla al balzo dopo l’elezione inaspettata di Hassan Rouhani alla presidenza della Repubblica islamica.

C’è però un elemento poco stressato dell’accordo con l’Iran, ed è la disponibilità al compromesso dimostrata dagli americani. In effetti, l’amministrazione Obama è passata dalla retorica di George W. Bush sul regime change nei confronti del regime teocratico di Teheran ad accettare un accordo che, nei fatti, con l’alleggerimento, seppure temporaneo, delle sanzioni, assicura però al regime le condizioni per rafforzarsi all’interno.

Si deve infatti leggere così il mandato a negoziare concesso dalla Guida suprema l’ayatollah Khamenei al presidente Rouhani: l’Iran può cedere terreno su una questione che riguarda la proiezione internazionale del paese (il nucleare come deterrente) in cambio di una non ingerenza negli affari interni e delle condizioni affinché il regime possa tornare ad assicurare ai propri cittadini condizioni economiche adeguate. Rouhani, non dimentichiamolo, è un religioso di professione, un clerico che non ha intenzione di mettere in discussione la natura teocratica del regime di Teheran.

Il compromesso di Obama, nel mondo multipolare, si è spinto fino a qui: trattare con un regime dalle caratteristiche profondamente differenti, ed accettare che nella trattativa ci siano le condizioni perché, questo regime, continui ad esistere.

Certamente, siamo molto distanti dalla retorica dell’esportazione della democrazia. E più vicini all’idea di vivere in un mondo in cui tra diversi, diversissimi, si può negoziare, e trovare punti in comune che garantiscono la sicurezza di tutti.

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