Forse riuscirà ad Obama, quello che non è riuscito a Renzi: ovvero spiegare in Italia – a partire dai giornalisti al seguito del premier – che “andare in Africa” non è più solo il verso di una canzone da usare per prendere in giro i segretari dei partiti di sinistra, o il tempo in aereo per fare l’ennesima domanda sulle riforme, ma l’asserzione che esiste un nuovo spazio di politica estera vicinissima all’Italia, che ci riguarda e di cui il nostro paese deve e finalmente vuole occuparsi.
Il summit Stati Uniti-Africa rende evidente al pubblico italiano quello che era già chiaro a questo governo: l’Africa sta tornando ad essere un continente strategico, non solo per le minacce – migrazioni, terrorismo, ora il virus Ebola – che possono derivarvi, ma per le opportunità di partnership in vari ambiti – economico, geopolitico, demografico – che si possono creare.
Il viaggio africano di Matteo Renzi, la prima volta di un presidente del consiglio italiano in Africa (Napolitano visitò il Ghana all’inizio del suo primo settennato, Prodi andò in visita al summit annuale dell’Unione africana nel 2006, poco dopo la sua elezione) segue una comune volontà di principio di questo governo e del precedente a ravvivare le relazioni diplomatiche con l’Africa subsahariana.
Poco prima del viaggio di Renzi, infatti, il viceministro degli esteri Lapo Pistelli si era recato in un tour tra vari paesi del Corno d’Africa, ottenendo risultati diplomatici (l’arrivo di Meriam Ibrahim ne è stato il visibile esempio) e seminando opportunità per il prosieguo del lavoro italiano nell’area, a partire dalla riapertura dopo molti anni delle relazioni politiche ad alto livello con l’Eritrea, mentre il ministro Emma Bonino si era recata in visita in Africa a gennaio, con due viaggi, rafforzando l’idea di una diplomazia della crescita che deve passare anche a sud del Sahara; infine uno dei primi annunci del ministro Mogherini ha riguardato la riapertura dell’ambasciata italiana a Mogadiscio.
Tutti tasselli importanti per rilanciare una presenza diplomatica e politica in un continente verso il quale l’Italia ha un vantaggio geografico competitivo e con il quale il nostro paese ha una capacità di dialogo diversa dagli altri (il principale successo di diplomazia ottenuto dall’Italia negli ultimi 30 anni è stata la firma dell’accordo di Roma per la pace in Mozambico). Tutti tasselli che indicano una possibile “via italiana” alla presenza in Africa, enunciata anche da Renzi: questi sono paesi che chiedono più Italia, in forma di bellezza, qualità e anche solidarietà.
Anche la riforma della cooperazione, divenuta legge venerdì scorso al senato, implica la possibilità di una “via italiana” nei rapporti con i paesi meno sviluppati: riconoscere che la politica di cooperazione è parte qualificante della politica estera, così come l’apporto che il settore profit può dare a strategie di sviluppo sono elementi di una strategia italiana diversa da quella ad esempio dei paesi nord europei che guardano all’Africa come a un continente in cui andare solo a mitigare gli effetti della povertà.
Le importantissime visite in Africa di Bill Clinton nel 1998 e di Tony Blair nel 2002 sono state infatti visite che andavano a premiare beneficiari virtuosi degli aiuti, paesi concentrati nello sforzo di ridurre povertà, fame, malattie e malnutrizione. Ma l’Africa di oggi non è più unhopeless continent come da copertina dell’Economist del 2000, che deve solo essere oggetto di solidarietà internazionale, ma è diventata soggetto stesso delle relazioni internazionali.
L’intendimento del nostro governo a riavvicinare l’Italia all’Africa fa ben sperare che l’Italia possa riconoscere l’Africa come partner di sviluppo. Serve però una coerenza di fondo delle strategie perché alla suggestione di una partnership Italia-Africa seguano fatti concreti e non esclusivamente l’arrivo di interessi economici senza un disegno strategico. Ecco allora alcuni elementi di riflessione per orientare la nostra presenza:
Innanzitutto va affrontato il capitolo Africa e diritti umani. Chi ha fatto prima dell’Italia una seria politica africana, a partire dalla Gran Bretagna di Tony Blair, si è trovata subito a fare i conti con il tema della governance democratica, della risoluzione dei conflitti e di come avere a che fare con governi che non sempre rispettano i diritti umani. Basti pensare ai conflitti iniziali tra il Dfid di Claire Short e il Fco di Jack Straw. Così alle critiche per l’incontro di Pistelli con il presidente eritreo Isaias Afewerki, o per la presenza di Finmeccanica insieme a Renzi nel tour africano si risponde chiarendo per cosa, per quali valori e per quale visione del mondo l’Italia ha fatto quegli incontri.
In una realtà globale multipolare non basta più che il nostro paese spenda nei rapporti la nostra tradizionale capacità di negoziazione dei conflitti e le reti di solidarietà che abbiamo nel mondo. Dobbiamo anche chiarire per quale visione globale spendiamo le nostre risorse. E quindi: l’incontro con un dittatore come Isaias aveva l’obiettivo di rafforzare il dialogo con Asmara per arrivare a migliorare le condizioni di vita di migliaia di ragazzi eritrei che altrimenti scappano da quel regime attraverso il mediterraneo, e non sempre riescono ad arrivare sulle nostre coste. Così si ridà senso alla politica estera, alla composizione cioè di visioni diverse tra paesi in uno scenario globale.
Riconoscere la soggettività politica del continente significa rafforzare il nostro impegno verso l’Unione africana e i raggruppamenti regionali, in grado di creare e portare avanti African solutions to African problems. Significa spendersi per una inclusione significativa dell’Africa nella governance globale. Significa strutturare un sistema di continue e cadenzate visite e rapporti politici con i paesi africani, che comprendano in modo strategico altri ministeri oltre il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e la dimensione parlamentare. In terzo luogo vanno chiarite le nostre priorità in termini di paesi. Africa is big, ti dicono gli africani con un sorriso enorme, quando si parla del continente nero in senso generale.
Per la nostra presenza nelle istituzioni multilaterali, è certamente importante avere rapporti con tutti. Ma una seria politica africana dell’Italia si imposta solo con un certo numero di paesi, che devono essere paesi prioritari per la cooperazione, per l’azione diplomatica e per gli investimenti. In questo senso il Maeci e il Mise hanno già fatto un importante lavoro di selezione tra i paesi, che deve proseguire.
C’è poi una grande domanda di Africa da parte delle nostre imprese, che va agevolata, guidata, stimolata. Certamente, il modello delle piccole e medie imprese è un modello che è più adattabile al contesto africano, ma ha anche una struttura che più difficilmente affronta il mercato estero, e soprattutto mercati complessi come quelli africani. In questo senso, un accompagnamento pubblico serve ancora di più.
Alcune idee: una specifica garanzia temporanea contro il rischio politico attraverso il gruppo Cassa depositi e prestiti per investimenti in Africa; un più stretto coordinamento tra Maeci e Mise per le missioni di sistema; missioni di filiera in specifici paesi; la promozione di occasioni di incontro B-to-B di filiera in Africa o in Italia; il rafforzamento dell’internazionalizzazione di reti di imprese in Africa, con capofila le grandi società italiane già presenti nella regione; un migliore utilizzo delle seconde generazioni nel sistema di internazionalizzazione (la Francia ad esempio ha un programma di inserimento di ragazzi di seconda generazione nel corrispettivo dell’Ice).
Le relazioni economiche da sole non bastano. Se la cifra italiana dei rapporti con l’Africa è la possibilità di costruire una rete di reciproco sviluppo, va capito come un intervento organico nei confronti dell’Africa possa essere portatore di sviluppo. In questo senso, la legge della cooperazione prevede la creazione di un’istituzione finanziaria per lo sviluppo. Questa istituzione potrà finanziarie progetti di natura commerciale che però non sono ancora economicamente profittevoli, che vanno individuati in modo strategico e con un’ottica di lungo periodo.
Infine, serve darsi una visione strategica. Nel passato, e in altri paesi, il segnale di un’attenzione nuova all’Africa è stato dato in vari modi: la stesura di una strategia Africa, come fatto dalla Germania e dalla Francia nel 2013; la creazione di una commissione per l’Africa (nel 2004 dalla Gran Bretagna); la designazione di un inviato speciale del governo (misura presa da molti paesi negli anni in cui il G8 discuteva di Africa).
L’iniziativa Italia-Africa già lanciata a fine dicembre 2013 dal ministro Bonino, la cui conclusione è prevista con un grande summit tra i nostri paesi e quelli del continente africano nel gennaio 2015, dovrebbe quindi diventare non solo un’occasione di relazione con i paesi africani, e di raccordo tra tutte le iniziative che ci sono in Italia per l’Africa, ma un momento in cui presentare un piano strategico di intervento dell’Italia in Africa.
Serve anche una figura chiaramente riconoscibile, un inviato speciale del governo (magari potenziando il ruolo del viceministro degli Esteri) che pensi, implementi e rappresenti la nuova visione dell’esecutivo italiano per il continente sia presso gli attori pubblici e privati italiani che presso le controparti africane, coordinando gli sforzi e le energie italiane secondo un disegno finalmente di sistema.
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